Zia Margaret
Zia Margaret

Zia Margaret

La luce calda e brillante che proviene dal giardino inonda il mio viso costringendomi a socchiudere gli occhi. La pioggia di poco fa ha donato un’atmosfera fatata, tutto brilla in una moltitudine di colori. Sono molto soddisfatta, le piante sono rigogliose e l’erba è di un verde brillante. Le ortensie, ora simili a grandi palle colorate di azzurro, risaltano ed emettono luccichii abbaglianti. Il grande salice piangente ha i rami piegati dal peso dell’acqua e sembra proteso a proteggere le piante di lavanda dell’aiuola accanto, anche loro ormai prossime alla fioritura. Sì, credo che non sia mai stato così bello, esplode letteralmente di vita.

Lei ne sarà contenta.

Lascio andare la tenda che avevo scostato e mi giro verso il soggiorno. La faticosa ma piacevole preparazione è quasi giunta al termine. Mi siedo sul sofà color crema e ammiro quella tavola imbandita alla quale mancano solo pochi e mirati aggiustamenti. Tazze bianche, piattini, tovaglioli e cucchiaini sono al loro posto. Da qui la prospettiva è ideale e ogni particolare risalta nel suo massimo splendore. Forse però se aprissi leggermente di più la tenda… A passi svelti torno verso la porta finestra, prendo il tessuto della tenda e lo stringo tra le mani rendendolo simile all’incarto di una grande caramella, poi lo fermo grazie a un simpatico nastro rosso trovato nel comò lì a fianco. Mi rimetto seduta e studio la differenza di luce. Ora è perfetto! Il giallo tenue del sole colpisce con più forza il pavimento in parquet di rovere, donando all’ambiente, e alla tavola in particolare, un’atmosfera e un calore maggiori.

Mi alzo soddisfatta e a braccia conserte ammiro la rappresentazione nel suo insieme. Decido di fare una fotografia, anche se il mio Io più romantico fantastica visioni di un quadro che raffiguri la scena, magari appeso nello stesso soggiorno. Quasi a perpetuare un eterno loop almeno per una volta al giorno, nella medesima ora. Lo vedo così bene nella mia mente che le figure di me e zia Margaret sono nitide e precise. Seduta una di fronte all’altra con le nostre tazze di tè sollevate come in un brindisi.

Con un sospiro accantono la mia idea ottocentesca e scatto una foto con il cellulare. Chissà, forse ne realizzerò un ingrandimento da incorniciare.

Finisco di sistemare gli ultimi particolari prima che la pendola dell’orologio batta i rintocchi delle diciasette.

Prendo le zollette di zucchero e le depongo in una ciotola bianco-azzurra, sopra poggio le relative pinzette che rappresentano un tocco di classe a cui non rinuncio mai. Zia Margaret adora le zollette e ne mette sempre due nella tazza; la prima quando è vuota e appena si scioglie ecco che fa scivolare la seconda con destrezza e abilità uniche. La zolletta sfiora appena il liquido scuro e poi si immerge con delicatezza ma decisione. Tante volte ci ho provato anche io, ma il risultato è sempre stato un disastro; tintinnii delle pinzette sulla ceramica, zollette rovesciate, gocce di tè che saltano fuori dalla tazza. Lei ne ha sempre riso, ma sommessamente, da brava donna inglese.

Eh, sì, perché zia Margaret è più inglese che non si può; del Sussex, anzi, East Sussex per la precisione, in una cittadina che noi definiremmo un piccolo borgo, chiamato Hastings, come la spalla un po’ tonta di Hercule Poirot.

Non ci sono mai stata, ma lei l’ha sempre descritto come un posto incantevole, con l’oceano a due passi e tanto sole. A questo però ho sempre creduto poco, le fotografie e le ricerche svolte mostrano spesso nebbia e freddo. Però a zia Margaret piace scherzare e non sai mai quando ti dice la verità.

Chissà perché continuo a chiamarla così, in realtà non è mia zia, ma è tanta l’abitudine che non riesco a farne a meno. Margaret è una carissima amica di famiglia, lei e la mamma erano molto unite e intime. Si erano conosciute negli anni Settanta, quando mamma era una tipa tosta, femminista e intraprendente. Già incinta di me, se ne andava in giro fiera del suo pancione sui cui aveva scritto “peace and love”. Si incontrarono a Londra in un grande raduno tipico di quegli anni e simpatizzarono subito, entrambe figlie dei fiori e desiderose di cambiare la società. Durante quei giorni passati insieme il loro legame divenne indissolubile. Amiche per la vita.

L’atmosfera della Londra di quel periodo contribuì molto, loro ne parlavano spesso.

Per mio padre, invece, quel viaggio rappresentò una follia e fu l’unica volta in cui lui e la mamma litigarono veramente, almeno che io sappia. Poi, com’era inevitabile, lui si rassegnò.

Negli anni successivi lei e la zia trovarono sempre un modo per stare insieme almeno qualche giorno; vacanze, brevi visite improvvisate, festività varie, ogni occasione poteva essere buona.

E così il mio legame con lei cresceva di anno in anno, finendo per divenire la mia madrina, anche se la mamma aspettò un bel po’ di tempo prima di battezzarmi, perché voleva che capissi il senso di quell’atto.

Negli anni si sono accumulati molti ricordi di estati, di vacanze passate insieme, in cui però era sempre lei a venire in Italia; mamma con il negozio aveva mille problemi e lasciare tutto, anche per pochi giorni, era complicato; papà, figurarsi, non era molto collaborativo e di andare in Inghilterra non se ne parlava proprio.

Da bambina aspettavo con trepidazione l’inizio dell’estate, perché significava che da lì a poco lei sarebbe arrivata. All’epoca poi mi vantavo di avere una zia tipicamente inglese, con quei capelli chiari dal colore indistinguibile, tra il biondo e il carota, l’aria paffutella, un po’ rotondetta e con quei curiosi cappellini. È così che la ricordo in quei tempi lontani.

Nelle vecchie foto di quarant’anni fa, invece, era molto più spregiudicata. La rivedo nello scatto ormai ingiallito posto sopra la madia. Una ragazza di trent’anni con il suo vestito a fiori, lunghi capelli biondi, una borsa di paglia da mare a tracolla, con l’aria divertita e un po’ fanciullesca. La differenza con la mamma era però marcata, perché si vedeva che lei era latina; chissà come mai gli inglesi hanno sempre quest’aria dimessa e contenuta.

Ma con noi, con me, è sempre stata molto affettuosa, anche protettiva, come dimostra il suo continuare a venire qui per qualche giorno all’anno anche dopo la morte della mamma. Per me zia Margaret c’è sempre stata e so che continuerà a esserci.

È per questo che la considero come una seconda madre.

I consigli che mi ha dato in questi ultimi anni sono stati preziosi, così come il conforto. È stata l’unica a riuscire ad attenuare il mio dolore e so bene che lei avrebbe avuto altrettanto bisogno di sostegno; l’amica di una vita era scomparsa, privandola di una figura importantissima.

Un pezzo della sua vita era morto con lei.

Ripensando al loro rapporto ricordo che le invidiavo moltissimo, non riuscivo a capire come fosse possibile che due persone che si incontravano solo per pochi giorni l’anno riuscissero a essere sempre così in sintonia. All’inizio ero troppo piccola per capire, ma lo compresi anni dopo; persone affini per cui la distanza e il tempo sono fattori assolutamente insignificanti, così ogni incontro era la naturale prosecuzione del precedente, anche se erano passati mesi, a volte un anno intero.

Ora conosco anche io quella sensazione.

I ricordi che ho sono tantissimi, seguirli tutti è una vera impresa. In fondo mi conducono sempre nella stessa direzione: nella profondità del nostro legame.

Anche se devo ammettere che è difficile scordare gli scherzi che loro due perpetravano a turisti e villeggianti in quei lontani giorni. Era strano, ma insieme il loro carattere cambiava, divenivano più bambine, burlone e inclini al divertimento.

Anche a distanza di anni accadeva che parlottassero tra loro, passeggiando oppure bevendo del tè, e poi all’improvviso esplodevano a ridere. Io so che rivangavano qualcuna delle loro burle. Uno sguardo di complicità era sufficiente per comunicare e io invidiavo questa loro capacità. Poi, anni dopo, l’acquisii anche io.

Tra i tanti regali della presenza di zia Margaret nelle nostre vite, il più significativo è stato quello di farci conoscere davvero il tè.

Negli anni riuscì a inculcare nella mamma e in me il rito inglese del tè alle diciasette. Prima per noi bere un tè era solo un atto privo di particolari significati, riservato alla stagione invernale, un’occasione per trangugiare avidamente una bevanda calda. Non era contemplato un cerimoniale nel quale ogni singola azione avesse la sua importanza e che necessitava di tutto il suo tempo. Per il tè non bisogna aver fretta, ci ripeteva sempre lei.

Io lo definisco un rito zen; la calma e l’ordine come i due fattori principali. Un atto da svolgere con studiata lentezza, nulla a che vedere con la nostra visione materialistica occidentale. Un momento per se stessi.

Imparammo così a preparare nel modo giusto il tavolino dove avremmo consumato la bevanda, una cosa che prima io e la mamma non ci saremmo nemmeno mai sognate. Una tovaglia bianca ricamata, a seguire un servizio di tazze anch’esse bianche e con relativi piattini, poi zuccheriere e contenitore per le zollette, piattino con fette di limone appena tagliato, un bricco minuscolo con latte fresco a temperatura ambiente, cucchiaini in argento e infine lei: la teiera. Posta esattamente al centro come un maestoso imperatore che troneggia; bollente, fumante, come un vulcano in attesa di mostrare tutta la sua potenza e in procinto di esplodere.

Preparare però la tavola con tutto l’occorrente era solo l’inizio, anzi, quasi nulla. Una fase introduttiva nella quale formavi lo spirito al vero evento, ma prima ancora c’era un dettaglio, quello che io da bambina adoravo di più e cioè i biscotti. Chi nella vita non ha mai assaggiato dei veri biscotti al burro da accompagnare a una tazza di tè bollente non può dire di aver vissuto davvero. Quella fragranza, l’odore del burro che si diffonde grazie al calore che si sprigiona dalla teiera, quel sapore dolce e vellutato, poi esaltato dal tè stesso, sono sensazioni imperdibili. Assaporarle, comprenderle, significa vivere.

Spesso zia Margaret ci portava questi biscotti, ma poi abbiamo finito per farli noi in casa e sia io che la mamma diventammo bravissime nella preparazione. All’inizio ci lavoravamo tutte e tre, poi zia ci lasciò fare da sole, limitandosi a supervisionare, ammirandoci soddisfatta e tronfia, comodamente adagiata sulla sedia della cucina.

Ecco allora che per arrivare a gustare davvero il tè ce ne volle di tempo. Finché ogni particolare non è al suo posto, amava dirci lei.

Questi ricordi mi stanno facendo commuovere.

È che ripensare a quei giorni mi fa capire quanto eravamo felici. Ora non può più essere così e, adesso lo comprendo, quella è stata forse la stagione della vita più bella per tutte e tre. Credo però che nessuna di noi se ne sia resa conto all’epoca.

Forse è un destino comune a tutte le persone.

Poi, finalmente, venne il fatidico momento. Quando zia Margaret ritenne che la nostra preparazione fosse sufficiente ci portò diverse bustine di tè. Non ne avevo mai viste così tante, nemmeno sapevo che ne esistesse un numero simile di varietà. Tè nero, tè verde, a foglia larga o arricciata, tè giallo, rarissimo, e anche il tè bianco. Tutti nelle loro infinite miscele e derivazioni.

Guardavamo esterrefatte tutte quelle tipologie di tè mentre lei rideva nel suo caratteristico modo compito, portandosi una mano all’altezza del naso e coprendosi anche la bocca, dalla quale però uscivano gridolini divertiti che non riusciva a trattenere. Così iniziò la nostra istruzione, svolta in modo divertente e leggero, come tutte le cose che facevamo insieme. Assaggiavamo, riconoscevamo i diversi sentori, mettevamo bustine di tè nelle diverse teiere, aggiungevamo limone o latte, mangiavamo tanti biscotti.

Erano pomeriggi bellissimi.

E nel momento in cui pensavamo di aver finito zia Margaret ci presentò il vero tè. Non quello industriale in bustina, che ci era servito solo per imparare, ma il tè in foglie per l’infusione, scelto con accuratezza e acquistato in pochi e selezionati negozi.

E noi che credevamo di aver imparato tutto!

Quel pomeriggio piovoso di un novembre di tanti anni fa capii realmente il senso del bere il tè e da allora è un rito che non ho più abbandonato.

Anche mamma, fino quasi all’ultimo, bevette il tè e volle partecipare alla sua preparazione. Cara mamma, quanto mi manca!

Poi un giorno zia Margaret ci disse una cosa importante e cioè che ognuno di noi deve trovare il proprio tè nella vita, la sua miscela con quella particolare provenienza. Non tutti i tè vanno bene, devi scegliere il tuo preferito e non è una scelta semplice né veloce. Ne puoi assaggiare molti, puoi variare, sperimentare, ma solo uno sarà il tuo tè. Alcuni dicono anche che sia il tè a sceglierti, ma a questo non ho mai creduto.

Lei ci raccontò come trovò il suo.

Il tè di cui zia Margaret si era innamorata era il Ceylon Nuwara Eliya, un tè nero dello Sry Lanka.

«Sapete,» ci raccontò una volta «non è sempre stato lui, anzi prima il mio preferito era un più semplice Earl Gray, conoscete il mio amore per il bergamotto. Poi un giorno lessi un articolo su questo particolare tè e mi incuriosì così tanto che decisi di provarlo. Quello che mi colpì, ancor prima di assaggiarlo, furono le sue caratteristiche e la nazione in cui è prodotto.»

«Perché, Margaret, di dov’è?» chiese mia madre.

«Oh, è dell’isola di Sri Lanka, che è famosa per il tè, certo, ma questo è davvero particolare. La sua caratteristica è l’altitudine, infatti prediligo quello coltivato a 2000mt che ha dei sentori realmente unici. Essendo un’isola riesce a catturare sia delle fragranze marine che montane, donando all’infuso un aroma tipico e unico. Quando l’ho assaggiato ho capito che era lui.»

«Accidenti Margaret, che trasporto! Ci hai parlato tante volte dei diversi tipi di tè, ma mai così» esclamò colpita la mamma.

Lei sorrise e inclinò la testa, poi socchiuse gli occhi sospirando.

«Se avessi visto quelle foto nella rivista, quelle piantagioni… che meraviglia. Lì la Camellia sinensis raggiunge i due metri di altezza, ci sono enormi piantagioni a perdita d’occhio, un luogo che dona una grande pace. Percepisci solo armonia e ordine. Si vive in funzione della pianta del tè. Forse è questo che mi ha stregato.»

«Cosa vuol dire Nuwara Eliya, zia?»

«Beh, significa sopra le nuvole, ma è anche il nome della regione di provenienza e il tè ha preso la stessa denominazione e si pronuncia “Nurelia”. Una regione molto bella, in montagna, dove insieme alle sterminate coltivazioni del tè trovi solo le case dei lavoranti e le bellissime scuole in stile occidentale, con il prato all’inglese curatissimo. Del resto i primi coloni britannici la chiamavano “piccola Inghilterra”, proprio per il suo clima fresco e umido. Un’unica strada si attorciglia in lunghi tornanti abbracciando quegli ettari di terreno perennemente verde. Sì, è davvero un posto stupendo, vorrei tanto andare a visitarlo un giorno.» Sorrideva mentre sgranocchiava un biscotto e sorseggiava una più prosaica miscela di English Breakfast.

«Addirittura, Margaret? Vuoi davvero visitare lo Sri Lanka solo perché produce la tua miscela preferita?»

«Sai, in realtà una volta era proprio una zona di villeggiatura per i coloni, è solo dalla fine del 1800 che si coltiva la pianta del tè. Oggi molte di queste piantagioni sono diventate un’attrazione turistica, quindi sì, fare una piccola vacanza è possibile.»

«Eh, piacerebbe anche a me visitare un posto così» sospirò la mamma. «Beh, allora dovrai proprio farcelo assaggiare questo tè, non credi?»

«Certo, ora siete pronte e abbastanza esperte» e sorrideva nel suo caratteristico modo. Poi rivolta a me: «Sai che viene chiamato lo champagne dei tè?»

«Ma lo champagne non è francese, zia?»

«Sì, ti sorprende che un inglese apprezzi anche un prodotto francese? Ma dobbiamo prendere il meglio che le varie nazioni ci possono offrire.»

«Uhm…»

«Poi al massimo lo inglesizziamo un po’!» e mi strizzò l’occhio.

Quando fa così non so mai se scherza o dice sul serio. Neanche quella volta lo capii. In fondo che importa?

Ora mi rendo conto che quella fu una delle ultime volte che eravamo tutte e tre insieme e felici. La mamma si ammalò poco dopo e, anche se il decorso della malattia fu lento, l’atmosfera meno allegra segnò gli incontri dei due anni successivi. Poi la mamma ci lasciò, in una fredda mattina di fine aprile.

Nei cinque anni successivi la zia continuò a venire lo stesso, come se non fosse cambiato nulla. Anche il fatto che papà non presenziasse mai a quei pomeriggi restò immutato. In più lui decise di raggiungere molto in fretta la mamma. Anche di questo zia Margaret mi consolò.

Il mio rammarico è che io non sono mai riuscita a consolare lei, egoisticamente continuavo a cercarla, a sentirla e a essere felice quando veniva, ma i suoi occhi tradivano sofferenza e non so se io le sia stata realmente di aiuto. Qualche volta credo che sia stata la mamma a chiederle di farlo, di guidarmi, di non lasciarmi, di vigilare su di me, dato che lei non poteva più.

Poi le visite hanno cominciato a diradarsi, riusciva a venire solo una volta ogni due anni per un paio di giorni e la sua salute malandata non l’aiutava. In più occasioni ho provato ad andare io, ma lei non ha mai voluto. Chissà, forse non voleva che scoprissi che Hastings non è poi così soleggiata.

Mi piace pensarlo.

Questo però non le impediva di continuare a sfoggiare i suoi cappellini, di sorridere, di prendermi bonariamente in giro e di berci le nostre tazze di tè in armonia. Il suo tè nero Nuwara Elya e il mio Earl Grey, tra un biscotto, un ricordo e qualche lacrima.

Tre anni fa ho davvero creduto che non l’avrei più rivista, ma avevo sottovalutato la mia cara zia Margaret. Infatti il nostro appuntamento si è solo spostato, rimandato a questo giorno di fine aprile, l’anniversario della morte della mamma. Lei sa che sono più triste in questa ricorrenza e così, come un tacito accordo mai discusso, eccola arrivare e questi sono stati gli incontri più belli e significativi di tutti.

Mi accorgo che con tutte queste riflessioni sto facendo tardi e lei arriverà a momenti, è sempre puntualissima.

Corro in cucina e dispongo su di un piattino le sottili fettine di limone, prendo il latte e lo verso nel bricco, sistemo nel piatto un’abbondante porzione di biscotti al burro ancora tiepidi e accendo il fuoco sotto la teiera in acciaio.

Prendo il vaso di vetro in cui è conservato il Nuwara Eliya e che è diventato anche il mio tè. L’acqua bolle e sorridendo la travaso nella teiera in ceramica in attesa di versarci un cucchiaino di foglie della preziosa miscela.

Porto tutto in sala e lo poggio sul tavolo. La teiera emette un sottile filo di vapore dal beccuccio, i biscotti sono lì accanto e già l’aroma inizia a diffondersi nella stanza. È tutto pronto.

Faccio un bel respiro e vado verso l’ingresso, voglio che mi trovi già lì, ci tengo a questo. Le pendola del soggiorno suona le diciasette e io apro la porta.

Lei è sull’uscio, con il suo tailleur giallo, un cappellino rosa che trovo molto buffo e un trucco pesante, perché gli anni passano ma la vanità resta. Mi sfoggia un sorriso che ricambio ed entrambe siamo incapaci di parlare e ci abbracciamo forte. Solo dopo qualche minuto ci lasciamo mentre la commozione si attenua.

«Vieni zia, è tutto pronto.»

Lei guarda con ammirazione la tavola, incrocia le mani al petto e annuisce.

«Sei diventata proprio brava, sai? È perfetto.»

«Grazie zia.» E lo dico con orgoglio.

Si avvicina alla porta finestra e ammira il giardino con un ampio sorriso che le illumina il volto. Ne sono contenta.

La faccio accomodare e prendo il barattolo di vetro con il nostro tè, lo apro e ne inspiro l’aroma con i suoi sentori agrumati e i ricordi che l’accompagnano. Ne verso un cucchiaino e mezzo nella teiera e richiudo, dispongo il passino accanto, intanto metto una fettina di limone nella sua tazza mentre lei ci fa cadere una zolletta dentro, in modo che il tè bollente la sciolga subito. Si serve di qualche biscotto, io invece ne mangio subito uno, lei mi sorride e mi ammonisce con il dito indice, come a dire che non si fa.

Sono passati due minuti e mezzo dall’infusione e mi accingo a versare il tè, ma prima guardo lei che annuisce sorridente.

Il nostro rito ha inizio e sorseggiamo quel tè nero dal gusto forte e deciso, che sa di mare e di montagna e penso a quelle placide colline e vette dove viene coltivato, alla pace che regna laggiù. Alterniamo un sorso e un sorriso, un biscotto e un ricordo, un aroma e un’immagine.

Non parliamo mai molto in queste occasioni, ma tanto sappiamo bene a cosa stiamo pensando, quali ricordi si affacciano nelle nostre menti.

Questi momenti sono i più preziosi che abbiamo e dobbiamo farceli bastare per un anno intero, ma per fortuna sono così carichi di emozioni e significati che rendono questo tempo come sospeso.

Il suo viso è illuminato dalla luce del sole che le accarezza le rughe della guancia e che lentamente scivola verso il collo, poi si riflette sul giallo del vestito. L’idea di scostare la tenda è stata giusta, così la scena ha assunto un contorno onirico, quasi surreale.

I biscotti sono finiti, le tazze sono vuote, sto quasi per chiederle se ne vuole ancora, se devo mettere dell’altra acqua a bollire, ma lei mi sorride in modo tenero e sospira indicando la pendola dietro di me.

Il nostro tempo è finito, lei non può più rimanere.

Annuisco e mi alzo per accompagnarla. Io sono triste, lei invece è sorridente, mi accarezza il viso e poi mi abbraccia. La stringo forte e vorrei che non se ne andasse e cerco di trasmetterle tutto l’affetto che provo per lei. So che lo percepisce.

Mi batte amorevolmente sulla spalla dicendo: «Ci vedremo presto cara, non temere.»

Annuisco e le apro la porta. La mamma è lì che aspetta, è venuta a prendere la sua amica, come le altre volte. So che vuole che questo rito rimanga solo nostro, anche se io preferirei che fossimo tutte e tre, come una volta, e so che un giorno sarà di nuovo così.

Saluto la mamma e zia Margaret, ed è di grande conforto per me sapere che sono insieme, di nuovo riunite e allegre. Basta guardarle per capire che sono felici.

Entrambe rispondono al saluto agitando la mano mentre io richiudo la porta. La loro immagine si perde in quella luce gialla del tramonto, dove tutto pare un po’ sfuocato e fiabesco.

Osservo la tavola in cui resta ancora un’ombra di bellezza e maestosità. Ora devo rimettere a posto ogni cosa ed è l’incombenza più faticosa perché non è accompagnata da aspettative, ma lo faccio sapendo che un altro giorno di fine aprile tutto questo si ripeterà.

© Gabriele Giuliani – Diritti letterari riservati

Foto di Paul-Vincent-Roll License by Unsplash – Free Use

6 commenti

    1. Ciao Alessandra. Hai individuato bene il messaggio che volevo lasciare con quelle parole, ma come autori non siamo mai sicuri se ci siamo riusciti. Grazie di avermelo confermato. È un testo lento proprio perché la ritualità emergesse e per comprendere che le cose importanti sono racchiuse in quei piccoli momenti. A presto e grazie.

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