A pesca sul lago
A pesca sul lago

A pesca sul lago

Oggi è finalmente domenica, la giornata tanto attesa. Ne sono felice e mi alzo dal letto di buon umore. Apro la finestra e guardo fuori: c’è un sole meraviglioso.

Credo che oggi ci divertiremo.

Vado in bagno e inizio a farmi la barba. Dopo sole tre passate, a causa della mia barbaccia lunga e incolta, il rasoio è già ricolmo e intasato di peli e passarlo sotto l’acqua non basta a pulirlo. Scioccamente ci passo un dito sopra. Sento subito una piccola fitta e ritraggo il dito.

Scemo che sono penso, che non lo sai che il rasoio taglia?

Giro l’indice e rimango bloccato nel vedere una grande goccia di sangue che lentamente cola dal polpastrello lungo tutto il dito. Resto senza respiro per qualche secondo. La testa mi gira e con la mano destra lascio cadere il rasoio e mi aggrappo al lavandino.

Accidenti no, ancora una volta!

Ma devo resistere. Posso superare questa fobia del sangue, lo so! Me lo impongo.

Faccio un grosso respiro, passo il dito sotto l’acqua e lo avvolgo nell’asciugamano. Trascorre un minuto. Il sangue si è fermato. E così, noncurante, riprendo a farmi la barba.

Sì, sono stato bravo, solo un piccolo momento di sbandamento e nulla più. E pensare che se fosse successo solo un anno fa sarei svenuto.

Ho sempre avuto la fobia del sangue, ma senza un ragione specifica, nessun trauma infantile. Eppure la vista del sangue mi ha sempre causato capogiri, svenimenti e terrore.

Andare a fare le analisi del sangue, quelle poche volte che ci riuscivo, era una tragedia e dicevo sempre al medico: «Stia pronto a prendermi se svengo!»

Il copione era sempre lo stesso: prima quell’odore di disinfettante che preannuncia l’ingresso della siringa nel tuo braccio, il pizzicore, e poi quel liquido rosso, vivo, che riempie siringa per poi finire nel tubicino e nella provetta. Poi le stelle e collasso. Non serve non guardare, inutile girare la testa dall’altra parte, basta immaginarlo.

Anche il solo togliersi il batuffolo di ovatta dopo il prelievo, con quel puntino di sangue che risaltava nel bianco del cotone, mi creava problemi. Ovviamente, ho sempre evitato come la peste le analisi; figurarsi se avevo mai pensato alla donazione.

La sola idea di rimanere attaccato a quella macchina per chissà quanti minuti, vedere quel tubo che succhia via il tuo sangue, con la folle paura che magari si dimentichino di te, lì da solo in quel lettino, senza poterti alzare o andartene. E se te ne tolgono troppo? Se svieni? Se nessuno se ne accorge?

No, mai e poi mai avrei donato. Era più forte di me.

E questo fino al giorno in cui, nel primo pomeriggio, mi arrivò una telefonata: «Roberto, sono io, Giorgio. È successa una disgrazia. Franco ha avuto in incidente, è grave.»

Quando succedono queste cose la prima reazione è sempre l’incredulità.

«Ma cosa dici? Che incidente? Ma quando?»

Poi subentra il rifiuto.

«Ma non è possibile! È uno scherzo? Non ti credo.»

Poi la rassegnazione.

«Va bene, vengo subito.»

Un minuto, due parole, e tutto è cambiato.

Ho ricordi nitidi e precisi di quel giorno: la corsa in ospedale, l’incontro con i miei due amici Giorgio e Alessandro, che mi avevano preceduto, e l’attesa infinita di un medico che ci desse qualche notizia.

Su tutto prevaleva il senso di impotenza.

In quel genere di situazioni puoi solo aspettare che qualcuno venga a dirti qualcosa, e nemmeno puoi arrabbiarti, ce ne sono tanti lì come te, tutti in angosciante attesa: sono parenti, amici, e vivono la tua stessa pena. Tanti sconosciuti racchiusi in una squallida stanza di trenta metri quadri, pareti grigie, aria viziata, luci al neon, che aspettano una notizia che potrebbe cambiare per sempre le loro vite. Una gioia sfrenata accompagnata dal sollievo o un dolore atroce seguito da una rabbia immane.

Io e Franco ci conosciamo dalle elementari, ventotto anni di amicizia in cui abbiamo diviso tutto: case, ragazze, università e qualche lavoro. Adesso siamo uomini e le nostre vite hanno preso strade diverse, ma la nostra amicizia è salda come sempre. Almeno una volta al mese ci vediamo e passiamo del tempo insieme, raccontandoci gioie e dolori o anche senza dirci niente. Non è fondamentale parlare. Quando ci rincontriamo è sempre come se ci fossimo lasciati il giorno prima. Questa è la vera amicizia.

Forse perché a trentaquattro anni nessuno dei due si è mai sposato, ci diciamo spesso che siamo gli ultimi dei Mohicani e questo ci fa sentire sempre più uniti.

Giorgio e Alessandro sono venuti dopo, ai tempi dell’università, sono ottimi amici anche loro e usciamo spesso tutti e quattro insieme. Ma senza avere quell’esclusività che ho con lui. Franco è Franco, e so che per lui è lo stesso, ce lo siamo detti più volte.

«Ale… tu sai come è successo?» gli chiesi.

«Una sfiga pazzesca. Un camion a cui si è esploso uno pneumatico ha perso il controllo e ha travolto tre auto, per prima quella di Franco. Dritto e diretto sullo sportello del guidatore. Una botta tremenda. Se non era per gli airbag sarebbe morto…»

«Come fai a esserne così sicuro?» lo interruppe Giorgio.

«Ho parlato con i portantini dell’ambulanza.»

Ci guardammo senza sapere più che dire. La tensione e l’angoscia erano l’unica compagnia e rendevano l’attesa ancora più straziante.

Franco è solo, ha perso i genitori da molti anni, in quel momento la sua compagna era fuori regione per lavoro e tentammo inutilmente di chiamarla. C’eravamo solo noi.

Mi ricordo i pensieri di quei momenti: erano pensieri di un’angoscia così tangibile che sembrava un qualcosa di fisico, di solido, come se avessero creato una materialità che potevo toccare.

Riuscivo a immaginare una vita senza il mio amico?

Finalmente venne un dottore, un ragazzetto di meno di trent’anni, alto, allampanato ed evidentemente preoccupato.

«Siete voi per Franco Ghilimberti?»

«Sì» gli rispondemmo tutti e tre insieme.

Ci portò in un’altra stanza e si chiuse la porta alle spalle. Ricordo di aver pensato, udendo il tonfo di quella porta che si chiudeva, come a una pietra tombale posta sulle nostre speranze.

«La situazione è grave, il vostro amico ha vaste lesioni, diverse costole fratturate e la milza è a pezzi: dovrà subire una splenectomia. Ma non è questa la cosa che ci preoccupa di più…»

Distrutti da quella sentenza, lo guardammo interrogativamente.

«Il vostro amico ha perso moltissimo sangue e ha un gruppo, lo 0 rh negativo, che pur rendendolo donatore universale, sfortunatamente lo rende ricettore solo ed esclusivamente di quel tipo di sangue. E qui, in ospedale, non ne abbiamo praticamente più. È universale e lo usiamo solo per le emergenze, e oggi ce ne sono state moltissime. Abbiamo fatto richiesta alla banca del sangue, ma non sappiamo quando verrà portato…»

«E quindi…?» dissi io.

«Purtroppo non possono operare finché non si trova questo tipo di sangue, il paziente avrà bisogno di diverse trasfusioni. È impensabile operare così. Voi, per caso, conoscete qualcuno con questo gruppo sanguigno?»

Bella domanda! Ma chi si ricorda qual è il proprio gruppo? Io non lo conoscevo, forse un tempo l’avevo saputo, ma me lo dimenticavo sempre. Sono quelle cose a cui non pensi mai, perché tanto non capiterà mai a te di averne bisogno. Certamente anche Giorgio e Alessandro avevano pensato lo stesso. ma la vita ti sbatte in faccia le necessità senza preavviso e ti coglie sempre impreparato.

Rimanemmo tutti in silenzio per svariati secondi.

«Cosa possiamo fare…?» chiesi io

«Chiamate tutti quelli che conoscete e chiedete il loro gruppo. Se voi non sapete qual è il vostro fate subito un test, ci vogliono tre minuti» ci sollecitò il dottore.

A quelle parole prima mi irrigidii, poi le gambe iniziarono a tremare. Il medico parlava e io ancora non avevo realizzato. Sapevo che avrei dovuto fare qualcosa, farmi analizzare il sangue. Ma ero famoso per il mio terrore anche tra i miei amici, che infatti mi guardavano preoccupati.

Il dottore se ne accorse e mettendomi una mano sulla spalla mi disse: «Ha paura del sangue?»

«Il terrore!»

«Si sforzi, è di primaria importanza.»

Giorgio e Alessandro si unirono al dottore e mi esortarono.

«Cerca di farlo, su… lo sappiamo che è difficile per te. Ma ci siamo qui noi, ti restiamo vicini.»

Difficile? Altro che difficile! Pensai.

Avevo perso il conto delle volte che ero svenuto o mi ero sentito male vedendo il sangue; nei giochi da ragazzino per una sbucciatura qualsiasi, oppure al banco della carne nei supermercati o anche durante la visione di un film. Mi sentivo morire ogni volta.

Poi iniziai a pensare a Franco. Sì, sarei stato male, ma se poteva servire a lui…

Decisi in un istante.

«Andiamo!»

Mi portarono in un ambulatorio al di là del corridoio.

Mi arrotolai la manica della camicia e mi girai dall’altra parte, mentre Giorgio e Alessandro mi tenevano una mano sulla spalla. Sentii la puntura dell’ago e l’odore del disinfettante, ma resistetti stringendo i pugni: pensavo a Franco mentre la testa mi girava. Non vedevo quel liquido rosso, ma sapevo che c’era e tanto bastava a scatenarmi una crisi.

«Abbiamo finito» disse il medico, che però non fu abbastanza veloce a far sparire la piccola provetta che vidi nel girarmi.

Svenni.

Cinque minuti dopo mi ripresi grazie ai sali. Sdraiato su un lettino mi sentivo uno schifo e vigliaccamente speravo che il mio sangue non fosse compatibile.

«Lei è uno 0 rh- ! È proprio il sangue che ci serve.» Il dottore era euforico.

La mia reazione fu strana. In un primo momento ebbi voglia di fuggire, saltare giù dal lettino e correre all’impazzata. Fatemi tutto, ma questo no.

Poi, invece, il pensiero del mio amico si sostituì al precedente e lo immaginai lì in un letto, sofferente, pieno di tubi e con il rischio di morire.

«Voi potete donare?» chiesi rivolto ai miei due amici.

«No, io Ab rh +» disse Giorgio.

«A rh-» rispose Alessandro.

Non ebbi nemmeno il tempo di riflettere che udii la mia voce dire con molta calma: «Va bene, facciamolo.»

Mi fissarono tutti e tre.

«Te la senti davvero?» mi chiese Giorgio.

«Sì, lo devo fare.»

«Se vuole possiamo darle un tranquillante, magari un po’ di Valium, così forse…» disse il medico.

«No, non voglio niente, anzi devo guardare. Lo devo fare se serve al mio amico.»

Mi portarono in un padiglione nell’altra ala dell’ospedale. La macchina per la donazione mi sembrava un terribile mostro, pronto a succhiarmi via la vita. È uno scatolotto che pare una radio a onde corte per le sue dimensioni. Ha una piastra rotonda che gira e assomiglia a un cd musicale.

Ero deciso a farlo ma la paura mi accompagnava e le mie gambe non erano salde. Tutti i miei timori sembravano prendere corpo. Starsene lì sdraiati mentre il sangue esce da te attraverso tubi trasparenti che ti mostrano tutto; essere impotenti, affidarsi interamente agli altri, anche se sono dei medici.

Ma Franco era più importante di una stupida fobia ed erano anni che volevo liberarmi di quel peso.

Magari è la volta buona, pensai.

«Iniziamo» dissi con la voce che tremava.

«Si sdrai e mi porga il braccio» disse l’infermiera, che mi sorrise comprensiva. «Forse è meglio se non guarda… »

«No invece, devo vedere tutto, e se svengo risvegliatemi. Di questa cosa non voglio perdermi nemmeno un attimo.»

Giorgio e Alessandro sgranarono gli occhi e chiesi loro di lasciarmi solo. Tentarono di protestare.

«Questa è una cosa che devo fare da solo» gli dissi deciso.

Uscirono mesti e dispiaciuti.

Con mia grande sorpresa non sentii nessun dolore quando l’ago passò il braccio ed entrò nella vena. Il tubo che portava via il mio sangue mi lasciò del tutto indifferente e inoltre trovai il lettino comodissimo. Continuavo a guardare il mio sangue uscire e non provavo nulla. Pensavo solo a Franco e speravo con tutte le mie forze che ce la facesse.

Ero stupito, ma la forza di volontà non mi abbandonava ed era una sfida con me stesso; ce la dovevo fare, non potevo permettere che una sciocca paura potesse causare la morte del mio amico.

Così continuavo a fissare quel tubo, mentre la sacca si riempiva. Avrei potuto rilassarmi, pensare ad altro, chiacchierare con l’infermiera: invece testardamente fissavo la macchina e il mio sangue, mi sembrava in quel modo di donargli ancora più forza.

Così andò quel giorno: il giorno in cui sconfissi la paura del sangue.

Il medico mi disse che normalmente la quantità di 450 millilitri riempiva una classica sacca di sangue per trasfusione, un prelievo normalmente tollerato da un uomo adulto. Ma a Franco ne occorreva molto di più.

«Me ne prenda il doppio, posso resistere benissimo.»

«Veramente non è consigliabile se…»

«Lo faccia e basta, sono sotto controllo medico no?»

«Sì ma…»

«La esonero da qualsiasi responsabilità. Per favore! Non potrei mai perdonarmi se il mio amico dovesse morire. »

«Va bene, lei rischia di mettermi nei guai, basta però che mi rimanga sdraiato e a riposo. Soffre di pressione bassa? È ipoteso?»

«No, affatto.»

Era diventato quasi divertente stare lì comodamente sdraiato e vedere quel tubicino rosso, che portava via una parte di me stesso per donarla al mio più caro amico. Era la sensazione più bella che avessi mai provato. In quel momento capii il vero senso del verbo “donare.”

Me ne presero due sacche, poco meno di un litro, e io mi offrii di donarne ancora, però me lo impedirono.

Mi sentivo bene e in pace, senza nessuna paura o terrore. Mi sembrava di essere diventato adulto tutto insieme.

Dopo di ciò i miei ricordi si fanno più confusi: rammento i succhi di frutta e le paste da mangiare che mi diedero, la lunga attesa fuori dal reparto mentre in sala operatoria si decideva la sorte del mio amico. E il sollievo nell’apprendere che altre sacche erano state portate dalla banca del sangue. Ma ricordo bene il dottore che ci comunicò che l’operazione era terminata e tutto era andato bene. Spesso rivivo il momento quando, due giorni dopo e altri due prelievi, dalla terapia intensiva fu trasferito in chirurgia e ci fu concessa una rapida visita. Grande fu l’emozione e la pena di vederlo lì, con il volto emaciato, pieno di ecchimosi, molto provato, ma con gli occhi vivi che mi fissavano.

«E così mi hai donato il sangue, eh? Tu! Incredibile! E non sei nemmeno morto» mi disse sorridendo a fatica.

«Certo! L’ho donato per salvare te e volevi che morissi io?»

«Bene, allora è la volta buona che riesco ad insegnarti a pescare…» Lo disse sorridendo, con un filo di voce. E io a sorridere con lui e con le lacrime agli occhi.

Ma cosa sto facendo?

Mi vedo davanti allo specchio con ancora mezza barba da fare e un’espressione soddisfatta da cretino. Da quanto tempo sono qui a ripensare a quell’episodio di ormai un anno fa? Avrò perso almeno venti minuti.

Faccio tutto in fretta, mi vesto e faccio appena in tempo a calarmi sulla testa questo brutto cappello floscio dalle tese larghe che il citofono emette il suo sordo ronzio.

«Sì?»

«Sono io… dai, muoviti. Sei pronto?»

«Arrivo, Franco, un minuto e scendo.»

È venuto a prendermi, ce l’ha fatta, alla fine è riuscito a convincermi e oggi andiamo a pescare.

Siamo in mezzo al lago su questa piccola barchetta. Franco mi ha detto di rimanere in silenzio o spaventiamo i pesci. Ma che bisogno c’è di parlare? Ogni tanto ci guardiamo e con gli occhi mi ringrazia di quello che ho fatto per lui, e mi prende in giro, mi dice che adesso sono davvero un uomo ora che ho superato la fobia del sangue.

E io gli rispondo che a saperlo lo avrei fatto prima, magari però per salvare una bella bionda. Sorridiamo divertiti. Io e il mio amico Franco.

© Gabriele Giuliani – Diritti letterari riservati

Foto di Mathilda Khoo License by Unsplash – Free Use

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