Il professore rimaneva in piedi davanti alla finestra e guardava quell’insolito aprile. L’inverno era stato lungo e rigido. La neve era venuta giù fino a marzo. La memoria della stagione fredda era rimasta appiccicata nel mondo al di là dei vetri, solo un accenno timido di fioritura sugli alberi e sul prato del giardino. Si spostò verso la scrivania dove aveva appoggiato la sua tazza di tè, la prese tra le mani sentendone il tepore, guardò gli occhi neri della moglie che sorrideva dentro la cornice d’argento e disse: “Dovremmo aspettare ancora un po’ le rondini quest’anno”. Ada amava le rondini, rivedeva nel loro volo isterico e chiassoso i figli nel tempo in cui rincorrevano i giochi e i sogni disordinati della loro primavera. Di Ada ora rimaneva la persistenza del ricordo, uno strappo nell’anima e l’immagine di quell’ultimo sorriso per aver fatto appena in tempo a rivedere il ritorno delle rondini. La casa era silenziosa, il trillo del telefono s’insinuò molesto nella quiete di quell’insolito aprile. Il professore alzò la cornetta: “Pronto”. Dall’altra parte un brevissimo indugio, e poi in un perfetto inglese non come quello dei suoi antichi studenti: “Hello I am Ethan Allen”. Una pausa. Un sospiro per farsi coraggio: “My father was Isaiah Allen”.
Dall’altra parte Ethan Allen sentì solo il pianto sommesso del vecchio professore d’inglese che, nella stagione in cui il futuro è un tempo ormai avverato, tornava a quel passato in cui bambino aveva incontrato un uomo buono di nome Isaiah.
Era l’autunno del 1943. Quel che rimaneva di quell’agglomerato di case affacciato sulla sponda destra del fiume Sangro a sud della linea Gustav era sotto il controllo degli alleati. Aveva poco più di sette anni, e non erano pochi per chi, unico uomo rimasto in casa, doveva fare la sua parte. Si aggirava per l’accampamento, con la certezza che avrebbe rimediato qualcosa per la cena. Perché la guerra prima che negli occhi l’aveva sentita nella pancia troppo spesso vuota. Erano strani gli alleati, parlavano una lingua incomprensibile e mangiavano cose strane, la carne era sigillata dentro scatole di metallo, persino il latte non era liquido ma condensato e il pane era bianco. Un bianco che strideva in quel mondo di un solo colore, il colore della polvere. Grigio. Ma quel pomeriggio a guidarlo non furono gli odori della cucina da campo, ma quel suono che si diffondeva malinconico e meravigliosamente nuovo. Perché la guerra prima che negli occhi l’aveva sentita nelle orecchie. E il suono della guerra non ha niente a che fare con la musica. Il suono della guerra è silenzio di morte mischiato a rumore. Rumore di sirene, artiglieria, aerei, ferraglie e poi preghiere di donne, urla di bambini e gemiti di feriti e pianti di madri. Ma lui non piangeva, era l’unico uomo di casa da quando il papà se ne era andato di notte sulla Maiella con gli altri compagni a fare la sua parte nella Brigata. No, non poteva piangere.
Quella musica era un incantesimo. Un richiamo.
La seguì e la trovò nell’armonica a bocca di un soldato con i capelli rossi. Rimase fermo stregato, sedotto da quello strano strumento color argento che non aveva mai visto prima. Il soldato terminò il suo concerto, aprì gli occhi e si accorse di avere un pubblico. Un bambino così diverso da quelli incontrati fino a quel momento. Aveva capelli chiari disordinati, un giardino di rovi, occhi verdi e il viso punteggiato da lentiggini. Non ne aveva visti di bambini così familiari nel sud di quel paese remoto che era venuto a liberare. Sorrise e lo invitò a sedersi sopra al sacco della VIII armata. Gli mostrò l’armonica e lo invitò a suonarla. Ci soffiò dentro ma venne fuori un suono stridulo che quasi lo spaventò, rosso in viso per la vergogna restituì l’armonica al soldato, che continuando a sorridere prese lo strumento e lo ricacciò nella tasca, dalla quale estrasse una foto. L’immagine di un bambino sorridente, lentigginoso e anche lui con i capelli rossi. Era il suo bambino, si chiamava Ethan.
Fu la musica a farli incontrare, e in quell’autunno il sergente scozzese Mister Isaiah Allen divenne il suo migliore amico. Ogni giorno si presentava al campo e il soldato gli impartiva la sua lezione di armonica. Era un bravo allievo, ascoltava e a piccole dosi progrediva, suonava per imitazione senza conoscere le note. Ma quella musica così bella che aveva ascoltato gli si era infilata nella testa e la canticchiava di continuo e quelle note le sapeva riprodurre facilmente sull’armonica del sergente. Il loro era un dialogo intrecciato in una lingua inventata, in cui le parole erano poche, qualcuna in inglese, e qualche altra in italiano, ma si capivano con i sorrisi, i gesti buoni e la musica che annullava la paura nascosta del sergente di non riabbracciare quel figlio che accarezzava sulla fotografia e la paura taciuta di un bambino di non vedere il ritorno del padre dalla montagna. Quella montagna che si stagliava all’orizzonte e che era carica di neve. Ma dall’altra parte del fiume la guerra chiamava. Avida reclamava il suo tributo di vite. E così Mister Isaiah partì. Si abbracciarono a lungo stretti, legati, così vicini da sentire l’uno il cuore dell’altro. E il sergente scozzese pianse e il bambino pianse. Versò tutte le lacrime che non aveva potuto far uscire e che aveva ricacciato nel fondo. Lo vide allontanarsi e perdersi nella strada che curvava verso il fiume. Si avviò verso casa a testa bassa: l’addio dell’amico era un peso troppo grande da sorreggere, una tristezza che lo schiacciava. Infilò le mani dentro le tasche e la sentì, nella stoffa della sua giacca logora e rivoltata scintillava l’armonica d’argento del Sergente scozzese Isaiah Allen. La battaglia di Ortona fu terribile, combattuta casa per casa, nelle strade, nei vicoli, nelle piazze, in ogni centimetro quadrato di quella geografia affacciata sul mare. Venne combattuta nei giorni di un freddo dicembre. Nei giorni di Natale. E non ci fu una nascita da celebrare ma solo morti da contare.
Il fronte si spostò e iniziò il lento cammino della ricostruzione. Tornò il papà dalla montagna con la libertà riconquistata, i fantasmi nel cuore, e la neve che gli era rimasta appiccicata nelle ossa. Lui non smise mai di suonare la sua armonica. Imparò la musica, ma fu quella prima melodia che aveva imparato da bambino a far innamorare Ada in quel giorno d’estate. Quella melodia divenne la ninna nanna che Ada cantava ai figli per farli addormentare. A ogni festa, a ogni Natale mai mancava la melodia di Isaiah. Tante volte era stato nel cimitero inglese, quell’anfiteatro di croci bianche affacciato sul mare. Ogni croce aveva visitato, ogni nome aveva letto. 2617 croci ma nessuna portava il nome di Isaiah Allen. Aveva sempre sperato che il sergente scozzese fosse tornato a casa dal figlio. Il tempo era passato, aveva lasciato segni su uomini e cose, reso opachi ricordi e visi. Ma quel nome, quel volto e quelle note erano sempre rimaste in lui. Non aveva mai dimenticato.
Quella telefonata in quell’insolito aprile dava certezza alla sua speranza.
Pochi giorni dopo la telefonata Ethan arrivò sulla sponda destra del fiume Sangro in una cittadina ricostruita, accogliente e operosa. Fu l’abbraccio di due fratelli. E parole e ricordi, storie e memorie ritrovate.
Quella mattina nel cimitero inglese due anziani signori violarono il silenzio di quel luogo tranquillo. Suonarono ognuno con la sua armonica la musica del sergente Allen.
Amazing Grace How sweet the sound.
Through many dangers, toils and snares
I have already come
This Grace has brought me safe this fare,
And grace will lead me home.
Isaiah aveva attraversato pericoli, insidie e fatiche, ma alla fine era riuscito a tornare a casa. I suoi occhi avevano visto la morte e le sue mani avevano dato morte, ma la sua musica aveva curato e rimarginato le ferite di un bambino di quello sperduto, invisibile puntino su una carta geografica.
Terminarono di suonare e rimasero fermi, stretti in un abbraccio. Il mare di fronte cominciava a mostrare i colori dell’estate, l’aria era più calda e sapeva di sale forse era il mare o forse le lacrime, nel cielo finalmente si agitavano le rondini.
Alle 2617 croci del Sangro River War Cemetery
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