Un lupo non genera agnelli
Un lupo non genera agnelli

Un lupo non genera agnelli

Il sentiero attraversava il fitto del bosco, ma la luna piena riusciva comunque a rendere sicuri i passi di Fernando. Non che ne avesse bisogno; aveva percorso quella strada fin da ragazzino, anche di corsa, come quella volta che era tornato a casa dopo un pomeriggio di pesca durato ben oltre il tramonto. Era caduto, si era raschiato a sangue un ginocchio e una volta a casa aveva assaggiato la cinghia del padre. Erano passati una dozzina d’anni da allora, eppure eccolo di nuovo su quel sentiero, come ormai ogni domenica di quella torrida estate. Fernando nemmeno badava a dove metteva i piedi; i suoi pensieri tornavano al giorno di primavera in cui aveva visto Bianca per la prima volta, alla veglia del più sfortunato dei fratellini della casa vicina, caduto e trovato morto in un pozzo. Lui non aveva trovato il coraggio di parlarle, ma si era sorpreso a pensare a lei come se fosse già sua. Ne aveva immaginato l’odore della pelle, di toccarla di nascosto mentre sedeva composta alla tavola, con gli occhi bassi in rispettoso silenzio. Quel sogno ad occhi aperti era diventato realtà e da qualche mese Fernando spolverava il vestito buono e la giacca di panno, poi si metteva in cammino per far visita ai Fabbri. La famiglia di Bianca non era poi così diversa dalle altre famiglie contadine della vallata; avevano una zuppa sul fuoco ogni giorno ed un forno di pietra per il pane, ma restavano pur sempre i casieri del Marchese. Ne curavano le vigne e le bestie, ma Bianca conduceva la stessa vita delle sorelle di Fernando, fatta di giornate chine sui campi e di sere passate lavorando a maglia davanti al fuoco; i suoi modi però erano alteri e sprezzanti del prossimo, al pari di una vera signora di paese.

Tanto era bastato per far colpo su di lui.

Ai primi caldi aveva camminato per ore, fin sulla cresta della collina e poi dall’altra parte, fino alla loro casa. A quella prima visita ne erano seguite altre, fino a che la sua presenza non diventò una consuetudine. Il padre di Bianca, il Fabbrino, conosceva bene il carattere della figlia ma a differenza di lei non si faceva illusioni sul partito che l’avrebbe chiesta in moglie; Fernando gli sembrava in ogni caso un buon affare. L’accoglienza che la sua famiglia riservava al corteggiatore iniziò lentamente a far breccia anche nei modi di Bianca, lusingata da tutte quelle attenzioni. Quella sera, dopo aver ascoltato le parole appassionate di lui nel salutarla in mezzo all’aia, si era lasciata baciare. Mentre tornava a casa calpestando i riflessi della luna fra i sassi del sentiero, Fernando esultava dentro di sé. L’anno successivo avrebbe chiesto la sua mano e insieme a lei sarebbe sceso da quelle colline. Avrebbe lottato per farsi strada, per ottenere ciò che voleva; una casa e una famiglia, lontano da suo padre. Sarebbe sfuggito a quella vita di campo, non avrebbe fatto figli a ripetizione per risparmiare sulla manodopera; avrebbe dato una scelta e un futuro migliore alla sua discendenza. La decisione di quei pensieri si scaricava in un passo marziale, tanto che ormai non mancava molto alla fine del bosco e la valle si sarebbe presto distesa di fronte a lui. In quel momento, Fernando si accorse che il richiamo della civetta, che lo aveva accompagnato sin dalla cresta della collina, tutto a un tratto si era fermato, e che l’intero bosco sembrava essersi ammutolito. Si fermò in mezzo al sentiero ad ascoltare quel silenzio. Improvvisamente lo sentì rompersi alle sue spalle in una vibrazione lontana; pochi secondi ed era già un rombo sordo, che aumentava d’intensità così rapidamente da riempire l’aria ancor prima che Fernando si nascondesse tra gli alberi. L’aereo passò sopra al bosco tagliando il cielo come una lama affilata, per poi scomparire insieme all’eco dei suoi motori. Mentre restava nascosto in attesa, pensò che di tedeschi non se ne vedevano da quelle parti ormai da diversi mesi e che con ogni probabilità l’aereo doveva essere Alleato. Lentamente, con lo sguardo rivolto nella direzione in cui era sparito, Fernando tornò allo scoperto. La luna era ancora al suo posto, incurante di quanto succedeva nel suo bagliore. Gli occhi di Fernando vennero attratti da un riflesso che galleggiava sopra di lui, oltre le cime degli alberi. Indietreggiò di qualche passo per vedere meglio, fino a trovare una visuale più ampia del cielo tra le fronde; stava guardando un paracadute, teso nella brezza della notte, che scendeva dolce sul bosco come una benedizione.

Quando Fernando entrò nell’aia il cielo era ormai chiaro. Di lì a poco sarebbe dovuto partire di nuovo, diretto al campo qualche chilometro a valle per spalare carbone nella caldaia del macchinario a vapore, così da prepararlo all’arrivo dei contadini per la trebbiatura; la paga non era un granché, ma era meglio di niente. Mentre saliva di soppiatto le scale di casa fino alla camera che divideva con il fratello, Fernando si sentiva stanco ma felice, con il suo nuovo paio di scarponi di pelle lucida legato per i lacci e portato a tracolla. Donatello stava ancora dormendo, ma i passi leggeri sul pavimento di legno bastarono a fargli cambiare posizione nella branda. Era il suo fratello preferito, più piccolo di solo un anno e che gli somigliava fin troppo, tanto che veniva spesso scambiato per lui da chi non era di casa. Dopo una breve resistenza, Donatello aprì lentamente gli occhi.

– È già ora di andare? Avresti dovuto svegliarmi, lo sai che non mi va di fare le cose di fretta appena sveglio.

Fernando si sfilò il trofeo dal collo e lo posò sul pavimento con reverenza.

– È ancora presto fratellino, puoi startene ancora a letto, ma se fossi in te ascolterei il racconto di cosa ho visto stanotte.

Gli ultimi strascichi di sonno si dileguarono lasciando spazio all’attenzione; Donatello pendeva dalle sue labbra e Fernando ne approfittò per aggiungere quanti più particolari ricordasse.

– Fidati, il pilota deve aver sbagliato il tempo di lancio; nessuno verrà a cercare quella cassa fin qua. E comunque, oggi stesso, io e te torniamo là con un paio di sacchi e portiamo via tutto quello che riusciamo a trasportare. Ci penso io ad andare a vendere gli scarponi in giro; vedrai quanti quattrini facciamo.

L’esaltazione di Donatello ebbe un rapido e inesorabile declino nel momento esatto in cui pensò a cosa avrebbe fatto il babbo se li avesse scoperti.

– E con Caino come facciamo? Quello ci ammazza…

Fernando non sopportava ormai da tempo il rigore imposto dal padre e ancor di più gli effetti che questo aveva su tutti loro.

– Smettila di chiamarlo Caino, il suo nome è Carlo! Si fa chiamare in quel modo solo per compiacersi del suo incutere paura; tu vuoi averne per sempre?

Tirò fuori da sotto la branda la borsa degli arnesi, amareggiato ma deciso a non farsi inquinare l’umore.

– Io adesso devo andare, faccio il fuochista giù al podere di Casa Nuova. Ci vediamo qui a casa per pranzo.

– Se vai alla trebbiatura a che ti servono quei dannati attrezzi?

Fernando sorrise con aria saccente.

– Magari mi metteranno in tasca qualche soldo in più; la giornata è lunga fratellino.

Lo stomaco di Fernando brontolava rumorosamente, non proprio il massimo per chi aveva la prospettiva di spalare carbone. Dopo aver poggiato la borsa ai piedi della trebbiatrice, si guardò attorno in cerca del pollaio. Le galline erano già sveglie a differenza del contadino, di cui Fernando immaginava la faccia stranita che avrebbe fatto nel trovar vuote le cove. Con la pancia piena di uova e la testa già altrove, quel ragazzone grande e grosso iniziò a spalare carbone di gran lena, nel modo in cui può farlo solo un sognatore. Quel che aveva trovato nel bosco gli avrebbe fruttato non poco, permettendogli di sposare Bianca il prossimo autunno. Aveva da parte già un bel gruzzolo e nel frattempo avrebbe continuato a spaccarsi la schiena nei lavori più umili per aumentarlo ancora, aguzzando l’ingegno per non lasciare nessuna occasione per strada. Gli arnesi che si portava appresso, e che Donatello tanto sinceramente detestava, non erano altro che una serie di piccole pinze di varia misura, di specchietti e di bastoncini uncinati. Aveva barattato una falce fresca di affilatura per quella borsa, proponendo lui stesso lo scambio ad un malfattore amico di suo padre; quello sciocco era convinto di aver fatto un affare, ma in quella valle di contadini tutti avevano una falce, mentre nessuno andava dal dentista. I denti marcivano al loro posto corrompendo e svuotando la bocca degli uomini, così Fernando aveva iniziato a praticare tempestive estrazioni, riscuotendo successo per la sua mano salda e decisa; le persone afflitte da quei dolori erano ben contente di pagarlo per porvi fine, anche se sapevano che non era certo un dottore. L’intraprendenza non gli mancava ed avrebbe trovato il modo di cavarsela anche una volta sposato; non immaginava nemmeno quali opportunità gli si sarebbero prospettate giù in paese, senza contare che con il treno avrebbe potuto spingersi in poche ore fino in città. Le cose sarebbero andate bene, di questo era certo. Sudato e sporco di fuliggine, Fernando non fece caso al tempo che passava; si sorprese quando vide arrivare i braccianti e pensò che fossero in anticipo. In effetti era davvero così. Uno degli uomini gli disse che era morto il vecchio che stava a Casina, che il funerale era alle undici, e che il padrone del campo li liberava per andarci a patto che avessero iniziato prima il turno. Fece le sue condoglianze e di rimando ricevette i complimenti del contadino per la macchina a vapore già pronta al lavoro; gli avrebbe dato volentieri una mezza dozzina di uova oltre alla paga, ma stranamente le sue galline non ne avevano fatte quel giorno. Mentre si concedeva una pausa sciacquandosi la faccia e le braccia al pozzo, Fernando pensò con un sorriso che, una volta finito in quel campo, avrebbe avuto tutto il tempo per arrivare al cimitero prima del morto; il becchino era pieno di acciacchi ed avrebbe accettato volentieri una mano per scavare la fossa, magari per metà del suo compenso.

La tavola era apparecchiata all’ombra della quercia, in attesa dei suoi commensali; a ronzargli intorno, insieme a qualche ape lungimirante, c’erano la mamma e le sorelle di Fernando, con le mani occupate da vino, acqua e pane. Lui era arrivato in anticipo ed aveva avuto il tempo di cambiarsi e indossare le scarpe nuove che lo avevano atteso per tutta la mattina sotto al letto. Si sedette al suo posto, contento di potersi avvantaggiare sugli altri col vino. Li guardò risalire lentamente il campo, trovando la figura del padre alla prima occhiata. Non spiccava tra le altre per via della sua mole, era piuttosto l’andatura a renderlo inconfondibile. Il suo incedere era quello del lupo dominante, che determina il cammino e il destino del branco anche quando non ne tiene la testa. Fernando lo osservò entrare nell’aia insieme con Donatello e gli altri suoi fratelli minori, Giulio e Ivo, e avvicinarsi alla sedia a capotavola facendosi largo nel chiasso delle cicale; Caino lo guardò negli occhi e gli fece un cenno con la testa. A questo si era ridotto il loro rapporto, una sorta di distaccato assenso, un compiaciuto disinteresse per un figlio che portava soldi in casa senza dare troppi problemi. Fernando abbassò lo sguardo sul piatto di pasta che sua sorella Bernardina gli aveva messo davanti, poi si voltò verso il posto di Sergio, non più apparecchiato ormai da un anno. Era il più piccolo dei suoi fratelli, per questo aveva sempre meritato l’altro posto a capotavola; uno al più vecchio e uno al più giovane, come da tradizione. Sergio era stato fin dalla nascita gracile e malaticcio ma, compiuti i dieci anni, Caino lo aveva portato lo stesso a lavorare nei campi, col risultato di farlo quasi morire di polmonite. Non sarebbe stato il primo figlio a dover essere seppellito, ma Fernando era sicuro che sua madre stavolta ne sarebbe morta. Ricordava bene il giorno in cui suo padre aveva dato ristoro a due monache in pellegrinaggio; Caino era sempre pronto a meritarsi l’indulgenza della Chiesa, convinto che questo gli facesse guadagnare punti per quella conta che immaginava essere il giudizio divino. Donare un figlio a Dio, affidarlo alla sua gloria, fu un’occasione che non si fece sfuggire. La mattina seguente Fernando aveva guardato Sergio allontanarsi, tenuto per mano sulla strada per Roma ma con lo sguardo rivolto indietro, verso la madre dalla quale veniva strappato; quella stessa donna si affannava ancora intorno alla tavola, servendo un uomo capace di tanto. Giulio e Ivo si alzarono per aiutare a sparecchiare, mentre Donatello raggiungeva Fernando porgendogli una sigaretta. I due abbandonarono la mensa, lasciando Caino e i manovali ai loro discorsi. Restarono nelle vicinanze, in attesa che il capofamiglia si ritirasse in camera; Fernando si lasciò accendere la sigaretta e ne aspirò una lunga boccata.

– Appena il vecchio entra in casa filiamo nel bosco; dobbiamo far presto e tornare prima che scenda di nuovo. Li hai presi i sacchi?

Donatello era nervoso. Sentiva gli occhi di Caino piantati su di sé, anche se ogni volta che si girava per controllare lo trovava intento a discutere di guerra e di regime con il più anziano dei braccianti.

– Li ho messi stamattina nella stalla, ma mi sa che stiamo facendo una cazzata, lo sai come la pensa il babbo; se ci becca ci ammazza di botte. Forse è meglio se lasciamo perdere, tu le scarpe nuove le hai già, che te ne frega!

Negli anni, l’indifferenza di Caino nei suoi confronti aveva alimentato in Fernando un insaziabile desiderio di affermazione, di indipendenza e rivalsa. Non sarebbe diventato come lui; la strada che aveva scelto passava per quel bosco.

– Non fare storie, i soldi che faremo con quella roba mi servono e tu avrai la tua parte.

Mentre Caino si alzava finalmente dalla sedia, di nuovo quegli occhi arrivavano fino ai due fratelli, a rafforzare la decisione di Fernando e i dubbi di Donatello.

– Io non vengo, ma ti reggerò il gioco. Non dirò una parola.

Fernando buttò a terra il mozzicone della sigaretta e lo schiacciò sotto alla punta degli scarponi freschi di vernice.

– Fai come vuoi. Se questa è la vita che pensi di meritare, vai pure a dormire. Tra un paio d’ore sarai di nuovo a spaccarti la schiena nei campi agli ordini di Caino, e sarà meglio che tu ti riposi, finché ti è concesso.

Ascoltando quelle parole, Donatello non poté fare a meno di seguire con lo sguardo il padre avviarsi in casa con il suo solito passo, privo di ogni incertezza.

– Sarà come dici, ma lui ci mette cibo in tavola ogni giorno, anche se tu sembri averlo scordato.

Fernando prese entrambi i sacchi dalla stalla. Pensò che dividendo il carico lo avrebbe trasportato più agevolmente, ma una volta liberata la cassa dalle frasche con cui l’aveva nascosta, li aveva riempiti a piene mani senza curarsi del peso. Li aveva chiusi usando i cordini del paracadute e legati assieme così da metterseli addosso come un giogo. Non aveva preso il sentiero per tornare ma il pendio nel fitto del bosco, anche se avrebbe dovuto procedere con più cautela, misurando i passi tra gli alberi. Le spalle gli bruciavano. Posò a terra i sacchi e riprese fiato, premendo le mani sulle ginocchia, contento di non dare a nessuno la soddisfazione di vederlo arrancare. Passando per la boscaglia, Fernando era arrivato direttamente sul retro della stalla; con il respiro tornato regolare, si rimise docilmente sulle spalle il peso della propria ambizione. Nell’aia non c’era nessuno. Perfino il cane era ancora a poltrire nello stesso posto in cui gli avevano lanciato gli avanzi del pranzo, all’ombra della quercia. Con una fitta al centro delle scapole, Fernando gettò i sacchi al di là della staccionata che delimitava i terreni di Caino, seguendoli con tutto lo slancio che i muscoli ormai esausti gli concedevano. Dopo aver corso gli ultimi metri, si concesse un’ultima pausa con le spalle appoggiate alla parete della stalla. Un attimo prima di voltare l’angolo, gli occhi di Fernando finirono sugli scarponi che indossava da un paio d’ore al massimo; con ancora sulle labbra un sorriso smorzato a giustificare le proprie azioni, si trovò davanti suo padre. Per un momento, i due rimasero fermi uno di fronte all’altro, entrambi immediatamente a disagio. Era l’orgoglio a consentire a Fernando di sostenere lo sguardo di Caino, tanto che fu il padre ad abbassarlo per primo, anche se non per debolezza.

– Non ricordo di averti comprato quegli scarponi. Sembrano comodi.

Mentre si rivolgeva al figlio, non una ruga si aggiungeva al suo volto. Tutto passava invece per i suoi occhi, che rivolti di nuovo a quelli di Fernando ottenevano di rimando la consapevolezza che nessuna bugia avrebbe potuto migliorare la situazione. Il figlio si sforzò di non mostrare debolezza.

– Li ho presi nel bosco; li hanno paracadutati ieri notte in una cassa di legno. Ho portato via tutto quello che riuscivo a trasportare.

Caino non diede segno di aver udito le parole del figlio, al punto che lui si sentì in dovere di continuare.

– Ne ho due sacchi pieni qui dietro, un paio che va bene anche a te c’è di sicuro, e ne restano tanti altri da vendere.

Fernando non aveva più chiesto consiglio a suo padre da quando era un bambino, da tempo ormai prendeva le sue decisioni da solo. Per contro, Caino non aveva mai messo in discussione nessuna di quelle scelte, neanche quando era dovuto intervenire per mettere rimedio alle conseguenze.

– Mi stai davvero regalando un paio di scarponi nuovi, come i tuoi? Ma come puoi offrire qualcosa che non è tuo?! I partigiani stanno cacciando i tedeschi, lottano per la libertà che il Duce ci ha tolto; quelle scarpe sono per loro, non per noi!

Fernando non riusciva a credere a ciò che sentiva.

– Tu mi vieni a dire cosa è giusto o sbagliato? Sei capace di disfarti di un figlio e mi vieni a fare la predica se ricavo qualcosa da questo?!

Caino non poteva tollerare quel tono di voce, quell’infima mancanza di rispetto che il suo stesso sangue gli dimostrava. Non avrebbe pensato di dover estrarre di nuovo la cinghia contro quel figlio ormai uomo, ma se questo era il modo in cui veniva ripagata la sua fiducia, allora era necessario.

– Questa non è casa di ladri, forse è bene che io te lo rammenti. Sei così impegnato a farti strada che sembra tu lo abbia dimenticato. Ho dato a Sergio quel che potevo, fino a quando ho potuto; non accetto che tu mi giudichi per questo!

D’istinto Fernando cercò qualcosa per difendersi dall’avanzata del padre, trovando a portata di mano un forcone lasciato appoggiato alla porta della stalla.

– Ti sei liberato di lui, questo hai fatto! E non farai mai di me un tuo manovale, un mezzo con il quale affermare la tua autorità!

Nella mente di Caino affiorò l’inadeguatezza che aveva sempre provato verso quel bambino determinato, al quale non era mai stato in grado di dare quello di cui aveva bisogno. Quel sentire, così imponente verso di lui, lo rendeva vulnerabile in ciò che più gelosamente custodiva dentro di sé; una fragilità che nemmeno a sua moglie aveva mai avuto il coraggio di mostrare. Odiava suo figlio per questo.

– Posa quel forcone e fatti dare una cinghiata, poi torni insieme a me nel bosco e riportiamo i tuoi scarponi lì dove sono caduti; che se li prendano i partigiani o nessun altro!

Fernando indietreggiò, continuando a tenere il forcone teso tra lui e il padre; i suoi occhi si addolcirono per un attimo, poi tornarono risoluti.

– Andrò via piuttosto, e non mi vedrai mai più. Sposerò Bianca e la porterò con me in paese.

Caino si indurì in tutta la sua stazza, mostrando il petto alla vita che gli toglieva un altro figlio.

– Vattene allora, che aspetti. Questa non è più casa tua, vai per la tua strada e non voltarti.

Mentre Fernando muoveva i primi passi ancora incerti verso il bosco, Caino raccoglieva da terra un paio di scarponi; erano morbidi tra le sue mani e conservavano ancora il profumo del grasso. Guardando il figlio salire per il pendio, lo vide scomparire tra gli alberi, a nascondersi, come quell’intima parte di sé faceva ogni giorno. Finalmente erano divisi, padre e figlio, così uguali da essere incapaci di somigliarsi.

Foto di copertina di Oziel Gomez – License by Unsplash – Free use

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© Lucio Magherini – Diritti letterari riservati

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