Solo un giretto
Solo un giretto

Solo un giretto

Caspiterina, l’aveva scampata proprio bella! Un altro capodanno come questo non lo avrebbe retto, ne era certo.

Saltelli, trenini e perfino la musica, che sembrava far traballare l’intera costruzione, gli avevano fatto temere il peggio.

Una notte di baraonda indicibile.

Canti, risate, saltelli e trombette, decine di bottiglie di champagne stappate e bicchieri rotti per festeggiare l’anno nuovo. Poi c’era stata anche l’Epifania e una masnada di piccoli ribelli gli aveva ballato addosso, un pomeriggio intero, senza sosta. Altri saltelli, altri giochi, altre trombette, poi odore di pizze, dolcetti e popcorn.

Anche quel pomeriggio aveva tenuto duro. “Come sempre” si era detto, e un moto di fierezza lo aveva attraversato in tutta la sua imponenza.

Quindi, all’attuale stato delle cose, era chiaro che sarebbe stato capace di andare avanti a oltranza; non c’erano più dubbi.

Stava al centro di quella cantina da sempre, o comunque da quando mani esperte, finita l’ultima guerra maledetta, si erano messe al lavoro per rimettere in piedi la città.

La costruzione era stata tirata su con i sentimenti di allora.

Lui non sapeva niente di mani, storia o d’altro, era semplicemente lì, dove era stato piazzato a fare il suo dovere. Ultimamente, però, sentiva trambusti nuovi, strani movimenti.

C’era stato un cambio di inquilini, non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo (almeno così sperava), ma più che un cambiamento di proprietari o affittuari, aveva avuto l’impressione si trattasse dell’arrivo di una scolaresca senza insegnante né accompagnatore.

Era abituato a sopportare tanta attività, ma ultimamente erano diventate troppe, sospettava che i nuovi alloggiati non dormissero mai. Non c’era tregua. Giorno e notte tutto un andirivieni, e le nottate – quei matti – le trascorrevano a schitarrare, cantando canzoni più o meno intonate, senza dare mai un’occhiata all’orologio.

Sembrava che le famiglie (doveva pur continuare a credere si trattasse di queste) cambiassero continuamente abitudini, che spostassero mobili da una parte all’altra, rinnovando le case in continuazione. Sentiva abbattere pareti e tirarne su altre, sentiva parlare idraulici, architetti, tappezzieri… Consigliavano ora questo ora quest’altro. Mentre l’ammodernamento coinvolgeva anche la cantina che si riempiva e si svuotava per saturarsi ancora, in una sequenza da storia infinita.

Gli dispiaceva un po’ non vedere personalmente come andavano le cose lassù, ma doveva ottemperare al suo dovere e non c’era da pensare ad altro.

Intanto vecchie carcasse di mobili, giocattoli, abiti smessi e tanto altro erano la sua sola compagnia, in transito per giunta. Dopo un po’ di tempo, infatti, arrivava sempre qualcuno che buttava via le vecchie cianfrusaglie per fare spazio ad altre cose, magari nuove, ma andate lo stesso fuori moda.

Erano le prime ore della sera quando arrivarono quelle due nello scantinato.

A dire il vero più che “arrivare” erano state scaraventate dentro, finendogli quasi addosso.

Il tranquillo silenzio fu interrotto così, da quell’ingresso che soltanto loro stesse avrebbero definito trionfale.

Due cassette di legno, un po’ grezze e già malconce: la nuova compagnia.

Dopo essersi guardate intorno e individuato il pezzo forte della situazione gli si erano rivolte chiedendo che tipo di vita si facesse laggiù.

Pilastro aveva veramente poco da raccontare. Tutto ciò che gli gettavano intorno erano solo scarti di esistenze passate; oggetti che, a loro volta, non avevano mai voglia di raccontare niente.

Le due si guardarono scocciate, poi, scambiandosi uno sguardo d’intesa, e quasi accavallando le proprie voci presero a dire: «Beh, sei fortunato amico» disse la prima.

«Noi siamo molto chiacchierone.» Aggiunse l’altra.

«Sapremo tenerti buona compagnia, almeno per un po’.»

«Almeno fino a quando non ci sarà da ripartire.»

Venivano dalla foresta Amazzonica, – dicevano – erano appartenute a un albero massiccio e rigoglioso, il Kapok. Un albero gigante con rami che arrivano a misurare da cinquanta a sessanta metri – affermavano, esagerando un po’ – “una sorta di condominio per scimmie, poiane e civette”, cercarono di spiegargli.

L’albero – a sentire loro – era stato poi smembrato e così avevano cominciato a viaggiare. Tir, fabbriche e di nuovo tir e ancora – assemblati con legni di alberi diversi – avevano ripreso l’ennesimo Tour che, alla fine, gira e gira, le aveva condotte lì.

Non la finivano più di parlare di città e punti di stoccaggio.

Raccontavano ogni cosa con ricchezza di particolari citando porti, baie, e descrivendo un enorme mercantile come fosse stato il panfilo di Adnan Khashoggi.

Nel raccontare poi – per rendersi credibili – prendevano l’accento di ogni continente che andavano incontrando, aggiungendo molte “esse” in caso di spagnolo, fingendosi teteschi di Cermania o franscesi dall’aria tutta parigina.

Pilastro rimaneva sbalordito. Era un bambino in ascolto di favole magnifiche.

Di certe cose, lui, non ne sapeva assolutamente nulla, che il mondo fosse tondo – per esempio – senza quelle due, non gli sarebbe mai venuto in mente.

Le narratrici, in realtà, erano un tantino spocchiose e convinte che la loro vita non sarebbe finita lì. Presto – dicevano – sarebbero venuti a prenderle.

Pilastro le guardava stupito e a poco a poco, goccia a goccia, in lui s’infiltrò la curiosità.

Certo anche lui aveva visto un po’ di mondo, soprattutto negli ultimi trent’anni.

Ricordava il primo Commodore 64 sbarcato giù in cantina, poi tanti altri pc. Dai più ingombranti Macintosh fino ai portatili HP. Di recente era arrivato anche un Asus, un modello mini. Poi una valanga di apparecchi Tv e playstation e videoregistratori e ancora mobilio di ogni foggia, misura e utilità che, dal noce al bambù – poteva ben dirlo – anche lui s’era fatto una gran cultura.

Dalla sedia a dondolo allo sgabello svedese, dal materasso in lana al memory comfort, aveva visto migliorare tutto quanto. Tante cose via via più belle, più comode, solo che alla fine non gli era mai sembrato contassero un granché.

Lo stesso gli era parso per bambole, tamburelli e bigliardini.

In ogni caso, ad ascoltare le cassette c’era da rimanere con gli occhi perfettamente spalancati.

Pilastro adesso si interrogava. Come mai, fino a quel momento, il mondo non lo aveva incuriosito più di tanto?

Mentre ancora ascoltava avvertì una sorta di prurito.

E sì, la curiosità ha gli stessi sintomi di certe malattie. E le cassette, riconosciuto il sintomo, incalzarono.

Ma alla domanda su cosa avesse fatto in tutta la sua vita, Pilastro non seppe cosa rispondere, e dopo aver riflettuto a lungo, poté solo confermare: «Sono stato sempre e solo questo qua.»

Lo derisero, lo stuzzicarono. Non era possibile – dicevano – vivere tutta una vita così, relegati dentro uno scantinato portando tutto quel peso, tutti i giorni, invariabilmente, un mestiere gravoso e mai ricompensato.

«Né ferie né altri riconoscimenti!? Puah» aveva concluso una delle due cassette, «una vita così non vale un fico secco. Perché non provi a darti una mossa?»

«Caro mio vedi di cambiare qualcosa finché puoi.»

Avevano ragione le sue nuove amiche, pensava lui, qualcosa andava fatto.

«Non posso cambiare niente» si lamentò Pilastro, dopo un’attenta riflessione.

«Non puoi nemmeno provare a ricordare se prima eri diverso?»

Con risatine e ghigni lo invitarono a sforzarsi: «Devi essere stato per forza differente, prima di diventare questo coso qua, no? Non ricordi nulla?»

Si sforzò non poco, gli sembrava di aggirarsi per vicoli ciechi dove non ci fosse assolutamente niente da riportare a galla.

Eppure, pensa e rifletti, prova e riprova, alla fine qualcosa riuscì a tirare fuori.

Ma… o era stralunato oppure negli occhi gli lampeggiava uno strano sogno perché non gli riusciva di dire neppure una parola.

Alla fine con un tono abbastanza incerto disse: «Mi pare di averle pur vissute un paio di avventure» e ancora si sforzava «sìììì, ero una pappetta molle prima di trasformarmi in Cemento!» riuscì a dire finalmente, con una certa enfasi.

Poi sembrò innestare la marcia-parlantina : «Sono stato sbatacchiato dentro una betoniera brutalmente, ricordo di non aver trovato nessuna via di fuga, non c’è stato verso. Mi spiaccicavo sulle pareti di quel marchingegno e scivolavo giù, mi riappiccicavo e scivolavo ancora, senza concludere un bel niente. Credevo non sarei sopravvissuto. Invece, finì che proprio dove siamo adesso, mi misero delle stecche di ferro tutte intorno ingabbiandomi per sempre. Rivedo tanta gente che mi ballava intorno. Indiani intorno al totem, che ero io, loro gli indiani. Ahahaha per dindirindira che avventura.»

Poi – come fissando le immagini di un film proiettate sopra il muro – aggiunse: «Ricordo perfino un ingegnere. Venne a trovarmi per ultimo, mi tastò da ogni parte, mise un paio di firme sopra un foglio e mi salutò con un buffetto su questo lato qui, “farai un ottimo lavoro” mi disse soddisfatto. Accipicchia, è stato il migliore augurio che abbia ricevuto!»

«L’unico, immagino, – disse tra i denti la cassetta messa peggio, poi con un accento vagamente meneghino, che al So.Ge.Mi. – il mercato orto-frutta di Milano – c’erano pure state per un fine settimana, si affrettò a sottolineare – ma va là, non ci sposso creder mica, la tua vita è tutta qua? Ferri, gabbie, e gente a fare di te quel che sei adesso? E tu, a essere diverso non ci hai mai pensato?»

«Datti una mossa amico mio – disse l’altra – il mondo è lì fuori e tu potresti essere tutt’altro se solo non ti avessero… – e qui scandì per bene la parola – in-ga-bbiato – precisando subito, quasi si scusasse – lo hai detto tu stesso, no?»

Pilastro il mondo un po’ lo conosceva, non lo aveva mai capito per benino, ma poteva dire che qualcosa gli era pur passata sotto gli occhi.

«Se vuoi ti aiutiamo noi» riprese la cassetta messa meglio.

«Voi?»

«Sì noi, ti facciamo un corso accelerato per varcare i tuoi confini. Vedrai, nuova vita, nuove amicizie, tutto un altro mondo.» E qui la voce si era fatta accattivante.

«Ma non posso essere altro che questo» piagnucolava Pilastro.

«Tutte baggianate, fidati, non te ne pentirai.»

Passarono notti intere a persuaderlo, ma Pilastro era un tipo duro. Beh, neanche a dirlo di cemento armato: ostinazione pura, ottusa e anche prevedibile.

Ma insistevano, era solamente questione di auto-convincimento – dicevano – se lui avesse voluto, poteva essere tutto ciò che desiderava, “tutto, tutto, tutto “– sottolineavano – avrebbe potuto fare altre mille, anzi miliardi di cose.

«Basta la tua volontà» giurarono.

Quando se ne accorse non gli sembrava possibile.

Si domandava come ci stesse riuscendo. Sì, la volontà l’aveva esercitata, ma non credeva che questa potesse operare come una mazza, un piccone, un trapano.

Non si rendeva conto.

Avrebbe voluto chiedere alle cassette cosa stava accadendo. Avevano mai assistito a un evento simile?

Intanto il cambiamento andava avanti e Pilastro stava ormai per trasformarsi.

Le cassette ammiravano attonite il prodigio.

A essere sincere, non credevano che Pilastro avrebbe dato loro retta. E no, porca puttana! E che cazzo, no!

Avevano pensato solo di fare quattro chiacchiere, tanto per passare il tempo, non immaginavano che quel pirla di Pilastro (al momento erano ferme ancora al milanese) avrebbe preso tutto seriamente.

Il loro racconto non era stato proprio sincerissimo, quando si narrano storie – si sa – non è lo stesso che essere davanti al giudice dentro un tribunale, insomma, non c’è bisogno di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità.

Al contrario, quando si racconta, si imbellettano trama ed episodi, e loro gli avevano rifilato solo qualcosa di attendibile tra milioni, anzi miliardi di bugie. Gli avevano detto, per esempio, che al piano di sopra – cosa vera – da un po’ di tempo si susseguivano feste in stile Epifania, una dietro l’altra, senza alcuna sosta. Nell’ultima, proprio loro due, avevano portato frutta in abbondanza. Dissero pure dei bambini che si erano divertiti fino allo stordimento.

Ma… intendevano forse dire che non si era più in gennaio?

«Certo che no!» avevano risposto in coro.

Si era già in agosto, ma pilastro non poteva accorgersene, le stagioni non lo avevano mai interessato.

Detto questo le cassette s’erano lasciate prendere la mano.

Omisero di riferire che il loro più grande desiderio era quello di poter tornare alberi. Tacquero sui chiodi con i quali le avevano assemblate tra un viaggio e l’altro, per spedirle insieme a legna scadentissima.

Loro che avevano le più nobili origini in fatto di botanica, e che venivano da un albero ultracentenario, erano finite tra il ciarpame di uno scantinato.

Non dissero di come fossero state scaricate da un mercato all’altro senza il minimo rispetto né che adesso erano vecchissime anche loro.

Quella era l’ultima stazione, presto sarebbero finite a fare luce in un camino.

Ma Pilastro s’era ormai invaghito, non vedeva l’ora di completare la sua trasformazione.

Non sapeva dire se avesse stretto forte le meningi o se avesse usato qualcos’altro per cambiare forma, fatto sta che una crepa, apparsa dove prima c’era una lieve scrostatura, si stava facendo strada senza la minima fatica.

La mutazione era ormai in avanzamento.

Non aveva ancora un’idea precisa su cosa voleva diventare e forse, in fondo, voleva sgranchirsi solamente un po’.

Di tanto in tanto, infatti, un certo orgoglio atavico sembrava gli rimontasse dentro.

Ho voglia di vedere un po’ di mondo – pensava – cosa può esserci di male a fare questo?

Se pure è notte alta, sente nuovi rumori, altre picconate. Vengono dall’appartamento a destra, sono altri lavori, altri cambiamenti. Sente pure i bambini: hanno cominciato un nuovo girotondo.

La crepa, non ha più l’aspetto di un piccolo spiraglio, e Pilastro, che pare stia per sbottonarsi la camicia, capisce: tutto sta per accadere.

È felice.

Finalmente potrà vedere in faccia quei birbanti e anche quella donna con i tacchi alti che certe notti non lo fa dormire.

«Solo un giretto – giura – dopo tornerò al mio posto.»

Che dopo avere ceduto non potrà mai più tornare indietro, le due stronze, a Pilastro, non glielo hanno detto.

Foto di copertina di Pierrick Le Cunff – License by Unspash – Free use

© Adelaide J. Pillitteri – Diritti letterari riservati –

I canali Facebook e Instagram dell’autrice.

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