Incubi d’acqua
Incubi d’acqua

Incubi d’acqua

Gli incubi erano iniziati la prima notte dopo la piena del fiume.

L’alluvione doveva ancora scatenarsi e io già non sopportavo più di addormentarmi. Alla terza notte la luna accompagnava lo sciabordio dell’acqua, alta ormai più di due metri. S’infrangeva contro le case come fossero scogli e io avevo ideato diversi modi per rimanere sveglio. Erano tutti ottimi e riuscivano a mantenermi le palpebre dondolanti almeno fino alle quattro, le cinque se ero fortunato, ma poi crollavo. Era inevitabile. Appisolarmi durante il giorno non mi creava problemi, la luce che filtrava era forte anche per l’onnipresente riverbero sull’acqua fangosa. Era il sole a tenere lontani gli incubi, non so come, ma se riposavo di giorno ero salvo il più delle volte. L’unica pecca di questo sistema era che non dormivo mai profondamente e con il passare dei giorni iniziai a trascorrere il tempo ciondolando, senza riuscire a concentrarmi su niente.

Il fiume Oyodo si abbassò al sesto giorno e con lentezza e spocchia si lasciò dietro detriti, morti e case distrutte, andando a ricongiungere le sue acque con il Pacifico. Il nostro piccolo paese nella Prefettura di Kagoshima ne era stato sopraffatto, violentato e infine abbandonato. Rialzarci sulle ginocchia insanguinate non fu facile e la ripresa fu maledettamente lenta.

Dovetti ricomporre una parvenza di normalità nel mio orologio biologico, lasciando da parte le dormite quotidiane poco soddisfacenti ma serene e scambiandole con sonni agitati e rapaci. Tutti dovevano dare una mano.

Dopo tre notti iniziai ad avere le allucinazioni; prima di denti aguzzi e viscide carezze alle caviglie, infine iniziai a intravedere pulsanti puntini bianchi e neri. Comparivano dal nulla e senza sintomi fisici che avrei potuto curare, o per lo meno razionalizzare. Non esistevano medicine per il mio disturbo.

Mi scoppiavano negli occhi mentre riempivo il sacchetto della spesa alla cassa dell’emporio all’incrocio del paese, mentre ero intento a spalare detriti fuori dal negozio di parrucchiera della signora Hobo, mentre coprivo con una nuova mano di vernice gialla la facciata della mia casa, proprio sul fiume, mentre pensavo che anche le inferriate alle finestre avrebbero gradito una riverniciata. Apparivano così, riempendomi il campo visivo come decine di semafori impazziti e altrettanto velocemente sparivano, tutti insieme. Non ci misi molto a capire che erano gli effetti della mancanza di sonno. Tutta colpa degli incubi.

Le allucinazioni iniziarono tre settimane dopo la ritirata del fiume, ormai sazio. Mi strisciavano intorno come serpenti e a volte, lo erano davvero, cobra enormi, piccole serpi che temevo ancora di più perché le immaginavo prendere possesso degli anfratti più nascosti della mia casa.

Me l’aveva lasciata mio padre in eredità, l’unica cosa che fosse riuscito a salvare dalle grinfie del suo amore per il gioco d’azzardo. I dadi, erano stati quei cubetti innocui a mangiargli la vita, organo dopo organo fino alla morte. La casa, quasi per miracolo, era scampata al disastro e adesso di mia proprietà. Lui era morto sei anni prima ed ero rimasto solo. Gli amici di un tempo, tranne un paio di fedelissimi, avevano fatto carriera e si erano creati una famiglia, raggiungendo le grandi città. Avevano decisamente ampliato gli orizzonti del paese, quelli che lo delimitavano tra il konbini di Arimoto e la rivendita di gomme di Inoue Daisuke. A volte avevo l’impressione che il mondo fosse tutto lì.

Vivevo stiracchiando un giorno dopo l’altro, potevo permettermelo grazie ad alcuni racconti pubblicati a puntate su diverse riviste nel periodo in cui ancora si guadagnava con cose del genere. Ci avevo aggiunto, solo due mesi prima, la pubblicazione di un romanzo poliziesco che stava andando molto bene. Era amato soprattutto dalle vecchiette in cerca di emozioni, dalle madri di famiglia il cui spirito avventuroso non si era ancora spento sotto le ceneri delle bollette incombenti e dai ragazzini. Erano loro più che altro che mi davano da mangiare, piccoli sognatori di brividi.

Nel frattempo, però, io avevo ben altro di cui preoccuparmi.

Le allucinazioni s’intensificarono mano a mano che il cado torrido della tarda primavera si trasformava nell’afa estiva e le zanzare s’impadronivano delle nostre vite. Venivano su dal fiume a sciami poderosi e invincibili, gonfie e affamate. Era sempre stata una lotta, anno dopo anno. Quell’estate avevo i miei guai e quasi non mi accorsi del loro arrivo. Ormai dormivo tre ore per notte e mi svegliavo sempre gridando o piangendo. Le cose smisero di migliorare anche quando avevo gli occhi ben aperti.

Un pomeriggio, erano circa le cinque, vidi distintamente Okada Eijiko, il pescatore del paese, mentre imbavagliava la piccola Miura, la figlia del farmacista. Lo vidi come si guarda un film in televisione, con la stessa nitidezza che hanno a volte i ricordi e le memorie. Ma io ero in casa, seduto a sudare sulla poltrona con indosso solo boxer e una canottiera lunga. Bevevo una bibita ghiacciata, sperando di spegnere il fuoco che mi consumava e addormentarmi per qualche ora davanti alla finestra. E loro mi apparvero fin nei dettagli, l’allucinazione, se lo era, durò per un paio di minuti e poi la dissolvenza se la portò via in silenzio.

Miura Ginko aveva nove anni, in paese ci conoscevamo tutti e la vedevo spesso disegnare fuori dalla farmacia, seduta sui gradini, quasi sempre sola. Okada Eijiko era un vecchio amico di suo padre, a quanto ne sapevo avevano vissuto tutta la vita gomito a gomito senza mai mettere il naso oltre i confini quadrati del paese. Lo conoscevo bene, per quanto si possa dire di conoscere a fondo un uomo schivo e riservato con vent’anni in più sulle spalle. Mio padre non mangiava pesce a meno che non venisse dalla barca di Okada, non si fidava di nessun altro. Passava giornate intere, con il suo fidato bastone e il basco calato in testa, sulla panchina vicino alla rimessa, a chiacchierare con lui. Avevo sempre pensato che fosse uno dei suoi pochi veri amici, forse avevano condiviso qualcosa di profondo, forse un segreto dei tempi della leva, non l’ho mai saputo, mio padre non era tipo da nostalgiche memorie. Io, da parte mia, ci scambiavo sempre due parole ed ero ben disposto a berci un paio di birre insieme.

Quella visione fu la prima di quel genere e mi sconvolse nel profondo.

Ricordo che mi alzai barcollando, inciampai nell’angolo del tappeto, caddi a terra come un ubriaco. Una parte di me avrebbe preferito esserlo, ma ero più che sobrio. Mi rialzai con sgomento e andai in bagno, avevo bisogno di acqua ghiacciata. Mi premetti con forza le dita sulla fronte e poi mi bagnai il viso, il collo, dietro le orecchie, sotto la nuca. Rabbrividii e nello specchio riconobbi solo il me stesso di sempre, il fardello che sentivo nel petto era invisibile. Mi passai le dita umide sulle palpebre. Pulsavano.

Mi vestii di corsa, presi il fuoristrada e scesi in centro, se così si può definire l’incrocio più trafficato del paese, che vedeva al massimo cinque macchine attraversarlo in contemporanea. Non eravamo un borgo segnato sulle guide per i turisti amanti della natura o dei paesaggi, ma solo un lembo di discutibile civiltà incastonata tra il fiume e le montagne.

Parcheggiai in uno dei sei posti nello spiazzo davanti al konbini, un supermercato aperto ventiquattro ore, girai la chiave per zittire il motore e rimasi così, con le mani sulle ginocchia, a guardare nello specchietto laterale. Avevo una visuale perfetta della farmacia, Ginko non era seduta fuori. Naturalmente questo opprimente dettaglio non doveva per forza significare ciò che la mia mente mi stava imponendo con violenza, avrebbe potuto essere ovunque. A casa di un’amica, a scuola per qualche corso pomeridiano, dentro ad aiutare il padre.

Fui distratto dalla signora Hobo che si avvicinava con una borsa di plastica piena di pacchi di riso, appesa al braccio destro. Riconobbe il vecchio fuoristrada bordeaux e alzò una mano per salutarmi, venendo dalla mia parte. Fui costretto a scendere e salutarla.

“Signora Hobo” le feci un cenno con il capo.

Arrivò da me sbuffando per il caldo, un nugolo di zanzare la inseguiva beandosi della sua grossa stazza.

“Oh Fumu, buon pomeriggio. Che caldo fa” si fermò qualche minuto di fronte a me, per riprendere fiato.

“Sì, è… tremendo” e non ero del tutto sicuro di riferirmi soltanto alla temperatura “Va ad aprire il negozio?”.

Annuì, mugugnando una specie di risposta affermativa “Tu che hai un buon panorama da casa tua, dimmi un po’, l’hai visto?”.

Io sgranai gli occhi, sentendomi quasi mancare e con qualche secondo di ritardo capii che si riferiva al fiume e non a Okada Eijiro. Anche quella era stata una sorta di allucinazione uditiva e ne avevo abbastanza per quel pomeriggio.

“Si riferisce al fiume Oyodo?” le chiesi, sentendomi uno stupido.

Lei corrugò un sopracciglio, dubbiosa “E’ evidente, al fiume, certo. Com’è?” sembrava preoccupata, e a ragione visto i danni che aveva arrecato a tutti solo qualche mese addietro.

“E’ calmo come un bambino” cercai di sorriderle, ma avevo perso la voglia di stare sotto il sole.

La donna sembrò rincuorata e fece per incamminarsi verso il marciapiede. Fui tentato di fermarla per chiederle se aveva visto in giro Ginko, ma qualcosa mi bloccò e rimasi zitto, salutandola con la mano. Lanciai un’occhiata all’entrata della farmacia deserta. Il sole era alto e ingrato nel cielo, ma sentii un brivido freddo risalirmi la schiena.

Sospirai e, spinto da un forte senso di nausea che mi impregnava la saliva come uno straccio imbevuto d’acqua sporca, entrai nel konbini.

“Ehi Fumu” Arimoto mi salutò subito, stava sistemando delle lattine di fagioli edamame nell’apposito reparto.

“Ciao, come andiamo?” sudavo e non riuscivo a stare fermo.

“Solite fatiche” alzò le spalle stretto nel suo grembiule verde “Che vuoi farci… la vita è proprio come questa scatoletta di fagioli” ne allungò una verso di me “Ti fa venire l’acquolina in bocca, ma sai già che quando li scalderai ti deluderanno. Eppure la compri” posò il barattolo sullo scaffale “Eh già” annuì.

Io non ero dell’umore per assecondare i suoi discorsi filosofici quel giorno e mi limitai ad annuire, con ben poca convinzione. Lo lasciai per inoltrarmi tra le corsie, gli scaffali erano stracolmi dei prodotti più diversi, per ogni esigenza. In fondo vedevo il banco del pesce brillare, sembrava quasi circondato da un’aura soprannaturale e la cosa, in quel preciso istante, non mi piacque per nulla. Rallentai il passo, poi accelerai, facendomi coraggio e dandomi dello stupido.

Il bancone era abbandonato, mi ci fermai di fronte e allungai il collo verso la porta semi chiusa che dava sul retro, sentivo una voce maschile.

“Eijiro?” dissi a bassa voce, poi lo ripetei con un tono più dignitoso.

Circa venti secondi dopo la porta si spalancò e Nakano Baiko, il ragazzino che faceva l’apprendistato, mi sorrise con trentadue denti.

“Prego Hagashino-san” disse.

Aveva una voce squillante, tipica dei ragazzi che hanno una fiducia incalcolabile e dannatamente pericolosa, nella vita. Chiamava tutti gli uomini, dai vent’anni in su, signore. Le donne le chiamava tutte signora e teneva a mente i nomi di ognuno.

Io lo guardai inghiottendo e sentii una morsa poco sopra le spalle, come se qualcuno stesse cercando di soffocarmi. Sbattei gli occhi più volte, pregando che non comparissero i puntini bianchi e neri.

“Hagashino-san…tutto bene?” mi guardava in modo strano.

“Sì” annuii, infilai le mani nelle tasche dei jeans per mostrare disinvoltura, ma in realtà per asciugarmele dal sudore freddo che le ricopriva “Sì, non c’è Eijiro oggi?”.

Il ragazzetto scosse la testa “No, oggi pomeriggio no. Ha portato il pesce stamani e poi se n’è andato. Doveva sbrigare qualche faccenda in città” sorrise.

Io, con difficoltà estrema, ricambiai quel sorriso fiducioso e mi allontanai. Forse Arimoto mi salutò ma io non lo sentii neppure, corsi fuori e soltanto quando mi ritrovai chiuso in macchina ricominciai a respirare.

Mi appoggiai all’indietro contro il poggiatesta. Chiusi gli occhi e cercai di sforzarmi il più possibile per ricordare i dettagli della mia allucinazione.

C’era Eijiro, indossava una camicia o una maglia rossa, i capelli spettinati e con le mani legava con forza quello che sembrava una bandana, o un fazzoletto, di colore nero attorno alla bocca di Ginko. Lei piangeva. Aveva i capelli scarmigliati e indossava qualcosa di azzurro, ipotizzai che potesse essere quel vestito senza maniche che metteva spesso. Dettagli, ma poco importanti ora. Cercai di focalizzarmi sullo sfondo, cosa c’era dietro di loro? Mi massaggiai le tempie, come per scaldare i ricordi prima di spingerli sul ring. Mi parve di ricordare una bombola, sì, una bombola del gas di vecchio tipo e forse vicino uno scatolone. No, non proprio, mi sfuggiva sia l’immagine che i contorni. Mi tornò in mente d’improvviso quando vidi passare davanti alla macchina il piccolo Yorkshire biondo della signorina Satoko.

“Un baule” lo dissi ad alta voce.

Non avevo comunque idea di dove fossero. Ormai mi ero persuaso del tutto che la mia visione si stesse materializzando, da qualche parte e non troppo lontano da lì. Dovevo capire dove, cercare di porre fine almeno a quell’incubo.

Misi in moto e partii, girovagai mezz’ora per le strade del paese senza sapere dove andare. Pensai che Okada non fosse così stupido da portarsela a casa, o forse sì? Se nessuno sospettava di lui avrebbe anche potuto azzardarsi, del resto viveva solo ed era scapolo. Mi parve così ovvio e banale da farmi venire voglia di piangere. Nascondere un’arancia in una cassa di arance è a suo modo geniale.

Passarono sette minuti, come mi confermò l’orologio del cruscotto, parcheggiai e spensi il motore dall’altra parte della strada, di fronte a una casetta. Non si sentiva un rumore, il vento, gli uccelli, i cani, i bambini, tutti tacevano in quella zona. Eijiro abitava dalla parte opposta del paese rispetto a casa mia, per lui il fiume era lontano.

Picchiettai sul volante, ero nervoso e non sapevo cosa fare. Avrei dovuto farmi aiutare da qualcuno, portarmi dietro Daisuke e il vecchio Arimoto, forse anche lo stesso signor Miura. Li avrei chiamati a raccolta, parlando loro della mia intuizione e chiedendo aiuto.

La realtà era che ero solo e me ne resi conto subito, mentre scendevo come un automa dal fuoristrada.

Se la casa di Okada era uguale a tutte le altre villette in serie del paese aveva una cantina spaziosa. Potevo dedurlo perché il mio migliore amico dei tempi del liceo viveva non molto distante da lì, in una casa esternamente identica. L’accesso alla cantina era una botola ampia sul retro della casa, sotto la finestra della cucina. Un scala portava al piano interrato, il mio amico ci teneva gli attrezzi da giardino della madre, i vecchi sacchi da boxe del cugino e i fumetti del padre. In quella di Eijiro avevo il sospetto che avrei trovato cose molto meno divertenti e fu con questo pensiero che m’incamminai piano. Poi iniziai a correre.

Il cancelletto sulla strada cigolò aprendosi, forse non l’aveva chiuso per la fretta. Oltrepassai il vialetto d’ingresso e girai attorno alla casa senza fare rumore, dall’interno non proveniva alcun suono e questo non fece che aumentare il mio disagio. Scovai subito la botola, era esattamente dove mi aspettavo e fu proprio lì davanti che persi il controllo. Sentii un fruscio alla mia destra e mi voltai di scatto, vidi uno sciame di api avvolgersi come seta al tronco di un acero, erano abominevoli, a migliaia e sembravano tremare sotto la luce del sole. Erano panciute ed emettevano un ronzio assordante.

Chiusi gli occhi di scatto mentre il sudore m’imperlava le sopracciglia e la barba trascurata. Mi dovetti appoggiare con la schiena alla casa per riprendermi, il cuore galoppava veloce, troppo veloce.

“E’ tutto ok Fumu, non c’è niente laggiù” sussurrai.

Era da qualche tempo che le visioni più macabre mi davano tregua, mi ci ero sbadatamente abituato. Mi scostai dal muro e spalancai gli occhi, il tronco dell’albero era sgombro e muto. Neanche la brezza ne sfiorava le foglie. Rivolsi l’attenzione alla botola e la alzai, pregando che i cardini non cigolassero. Non sentii nessun rumore.

Appena aperta sentii un profumo dolciastro da bambina, forse di gelsomino, che di sicuro non dovrebbe impregnare l’aria della cantina di uno scapolo di sessantacinque anni. Mi inumidii le labbra, avevo paura di quello che avrei trovato scendendo quei gradini di legno. Erano appena sette. Tergiversai, mi ritrassi, mi riavvicinai, sospirai, mi guardai attorno, sbirciai oltre il muretto che divideva l’altra villetta identica, poi capii che non avevo più scuse e scesi.

Al profumo si aggiunse un roco ansimare, credo il rumore più sgradevole che io abbia mai udito. Un suono viscido. Le gambe si decisero e corsi giù per i gradini. Un urlo di una voce femminile mi investì in piena faccia, poi una voce cavernosa, melensa, sottile, che intimava il silenzio. Pensai che fosse un miracolo che quel bestione di Okada non si fosse accorto di me e trattenendo un conato di vomito in bocca realizzai che era troppo impegnato per farlo.

Mi appostai dove il muro svoltava a sinistra, mi sporsi appena per osservare. E vidi la scena.

La luce artificiale illuminava ogni cosa, Ginko era seduta su una poltrona consumata, con le mani legate, il bavaglio nero le ricadeva inerme sul collo e il vestito era lacerato in più punti. Notai uno dei suoi bottoncini di madreperla sul pavimento di pietra, stonava talmente che mi salì un groppo in gola, ma continuai a guardare. La bambina piagnucolava piano, terrorizzata ed Eijiro le stava di fronte. Mi sembrava che avesse preso le sembianze di un orso mastodontico. Si era infilato una mano nella patta dei jeans sfrangiati e logori, ancora sporchi del sangue di qualche pesce squartato.

Inghiotii e pregai di non vomitare sul bottoncino della Miura.

“Shh… tesoro qui nessuno può sentirti. Nessuno” l’orso parlava e ansimava.

Ginko serrò gli occhi, stringendo le ginocchia. Lui le ordinò di riaprirli e guardarlo. Lei lo fece, piangeva così tante lacrime che il bavaglio si era inzuppato.

Mi guardai intorno, bisognava agire e dovevo farlo in fretta, adesso. Abbastanza distante da me, in fondo alla cantina dalla parte opposta rispetto a dove si stava mettendo in scena la mia allucinazione, vidi una mazza da baseball. Mi parve l’unica speranza, Corsi a prenderla e nel farlo urtai un secchio di vernice, che si rovesciò riempiendo la cantina di echi metallici e paurosi.

Lei lanciò un grido e io sentii subito l’urto della zampa dell’orso schiaffeggiare la sua guancia.

“Chi c’è?” disse e la sua voce pareva uscita dall’inferno.

Rimasi in silenzio e lo aspettai, sarebbe venuto da me perché aveva troppo da perdere e non poteva rischiare. Imbavagliò la bambina e si si avvicinò. Sentii i suoi passi che mi venivano incontro, nell’unico angolo buio che avevo trovato per nascondermi.”

Non gli diedi il tempo di cogliermi in fallo, appena vidi la sua ombra spuntare nel quadrato di luce creato dalla botola spalancata, mi fiondai su di lui. Riuscii a prenderlo all’altezza della tempia, lui gridò e cercò di colpirmi a sua volta con una stecca di legno. Era grosso, Okada Eijiro, l’orso, ma era anche barcollante, sgraziato e lento. Mi abbassai evitando il suo colpo e gli arrivai alle spalle. Fu lì che mi scattò qualcosa in testa.

Credo che Eijiro abbia pagato per tante colpe non sue. Pagò non solo per Ginko, ma anche per le mie notti insonni e rovinate, per il sonno che mi consumava le giornate, per gli incubi, per le allucinazioni, per quei maledetti puntini bianchi e neri, per l’alluvione, per tutte le delusioni di quand’ero ragazzo e di quando vedevo mio padre piangere seduto al tavolo di cucina, con la testa tra le mani, disperato per qualche perdita al gioco. Okada le pagò tutte e dopo qualche minuto mi fermai ansimante, lui era un ammasso di carne, sangue misto a un odore di sporcizia e sudore. La mano ne aveva avuto abbastanza e si aprì mollando la presa sulla mazza, che si schiantò a terra.

Respirai come se mi mancasse l’aria, una sensazione terribile e fu solo quando riuscii a riprendermi che mi ricordai, come per magia, dell’esistenza di Ginko.

Lei piangeva e io le corsi incontro, le slegai il bavaglio e poi i polsi. Si abbandonò contro il mio corpo singhiozzando e io mi sentii perso. Non ricordo se fui in grado anche solo di abbracciarla e consolarla, forse rimasi lì impalato a farmi bagnare la maglietta.

Ci furono un po’ di schiamazzi, ma dopo un mese il sindaco fece archiviare il caso Okada tenendosi la curiosità per sé, mettendo a tacere le voci più macabre e tornando a occuparsi delle innocue risse al pub o alle multe per divieto di sosta. Io me ne tornai a casa libero, dopo appena qualche notte ospite della polizia. Non furono neanche così male rispetto a quelle a cui ero abituato nel mio soffice letto.

Miura Ginko passò il resto della sua infanzia per lo più all’interno della farmacia di suo padre, dietro al bancone. Sorrideva di rado e io, che ero uno dei pochi che aveva il privilegio di assistere a quei momenti, la ricambiavo ogni volta.

L’alluvione si era portata via un pezzo del mio steccato, la spensieratezza di Ginko e il buonsenso di Eijiro. Tutto spazzato via da un’ondata di acqua, calore e incubi. Anche quelli con il tempo mi lasciarono solo, gliene fui grato e le allucinazioni li seguirono poco dopo.

Solo ogni tanto, non così di rado come vorrei, tornano senza bussare e s’insinuano in una vita che altrimenti sarebbe ai margini dell’ordinario. Tornano soprattutto quando piove molto e il fiume Oyodo si ingrossa, non è più uscito violento come quell’anno eppure continua ancora a farci paura.

Sono incubi d’acqua, trasportati dalla corrente sulle cime degli alberi spezzati, sulla pelle dura dei cormorani.

Foto di copertina di James Zwadlo – License by Unsplash – Free use.

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© Serena Lavezzi – Diritti letterari riservati

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