Il filo fragile della memoria
Il filo fragile della memoria

Il filo fragile della memoria

Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro. Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.”
Anna Karenina di Lev Tolstoj

Realizzai che era arrivata l’estate nel preciso istante in cui Rita, la mia vicina di casa, cominciò a farmi visita dopo la quarantena.

Era un tardo pomeriggio di fine giugno, all’inizio di una stagione a cui non prestavo più attenzione da troppo tempo. Rita, maestra elementare in pensione, si era presentata, con un cesto pieno di fichi fioroni in mano, dinanzi al portoncino di legno scrostato, verde bottiglia, della casa in cui ero cresciuta e dove mi ero trasferita in pianta stabile da qualche mese. Sulle prime avevo reagito con cortese distacco. Erano anni che i nostri rapporti si erano raffreddati anche perché non ero più tornata da quando mia madre era morta.

Feci lo stesso anche il pomeriggio successivo, quando era stata la volta dei fiori di zucca, e quello dopo ancora, quando mi aveva portato delle melanzane. Poi, per almeno un’altra settimana, tutti i giorni alla stessa ora, mi aveva riempito il giardino di cesti di zucchine, fagiolini, peperoni, susine e pesche. Dalla porta finestra della camera che avevo allestito come spazio di lavoro, a distanza di sicurezza, le chiedevo di lasciare tutto sul pratino coltivato a dicondra.

In ogni cesto mi faceva trovare un paio di fogli di carta oleata per cibi, ripiegati in quattro, su cui aveva appuntato a mano, con una grafia elegante, e a tratti incerta, ricette e consigli su come cucinare o conservare tutti quei prodotti. Alla fine si congedava sempre con uno: “Scusami, ma da quando sono rimasta sola, mi si stringe il cuore all’idea che tutto questo ben di Dio possa andare a male.”

Sapevo che suo marito se n’era andato mesi prima, durante la quarantena. Era malato da tempo e il virus che aveva scardinato le abitudini di vita del mondo intero, gettando più di un’incognita sul futuro, ne aveva anticipato la dipartita, mentre lei se l’era cavata con qualche linea di febbre. Senza figli né nipoti, si era ritrovata sola all’improvviso, confusa e incredula, prima ancora che disperata. Vedermela arrivare, con i frutti dell’orto che lei e il marito avevano amorevolmente curato per anni, dopo l’isolamento prolungato in cui mi ero rifugiata, mi aveva sorpreso e persino commosso.

Ci misi un po’, a dire il vero, ad arrendermi ai suoi modi gentili e discreti che nascondevano la voglia di ricominciare a vivere.

Rita aveva un sorriso mesto, ma luminoso, stampato in faccia; i capelli cortissimi e grigi, due occhi azzurri e brillanti circondati da rughe che, avrei scoperto qualche pomeriggio più tardi, davanti a una versione estiva e inedita di Earl Grey – di cui eravamo entrambe delle estimatrici – erano aumentate durante quei giorni di inferno sulla terra. Per me, invece, quello stesso inferno aveva assunto le sembianze di una bolla rassicurante dentro la quale avevo tirato il fiato e messo in pausa i ritmi forsennati della mia vita. In quei giorni interminabili, ma troppo brevi per fare tutto ciò che prima non riuscivo neanche a immaginare, avevo fatto mia una riflessione letta sul web, attribuita non ricordo bene a chi: “Non siamo tutti sulla stessa barca. Siamo nella stessa tempesta.” Ognuno di noi aveva vissuto la propria personalissima quarantena fatta di spazi più o meno ridotti, di vuoti più o meno profondi, di solitudini più o meno forzate, di presenze più o meno imposte. Tutti, però, come naufraghi alla deriva, in balìa della medesima tempesta di incertezza e paura.

In realtà, il mio isolamento era iniziato almeno un mese prima. Avevo esagerato con il lavoro, restavo ore incollata al pc, weekend compresi, con la chiara intenzione di produrre e non pensare, per non permettere ai ricordi – ma soprattutto alle occasioni perse e a quelle deliberatamente ignorate – di fare capolino. Il mio corpo però, a un certo punto, aveva chiesto il conto. Prima, aveva lanciato dei campanelli d’allarme che avevo ignorato di proposito e, poi, mi aveva messa all’angolo quando tremori, palpitazioni e senso di soffocamento mi avevano spinto a chiedere il parere di un medico. Dopo le analisi, dagli esiti regolari, mi era stata diagnosticata una sindrome da stress, per la quale si consigliava il riposo assoluto. Il mio capo aveva storto il naso all’idea di concedermi delle ferie che, peraltro, erano lì da non sapevo più neanche quanto, quindi aveva ipotizzato che potessi lavorare da casa, qualora proprio mi stressasse andare in ufficio. Gli avevo risposto che due settimane era il minimo che potessi chiedergli e che, se proprio ci teneva a me e al mio lavoro, avrebbe dovuto concedermi quello stacco. Mugugnando, si era dovuto convincere. Avevo buttato in valigia il minimo indispensabile, ero salita sul primo treno – di guidare non se ne parlava proprio – e con un taxi avevo poi raggiunto il paese in cui ero nata, quello di mia madre, sulle colline della Valle Umbra dove, ormai per tutti, ero la “milanese” che non tornava da quando, dieci anni prima, lei era morta un pomeriggio d’estate, accoccolata sulla vecchia poltrona del salotto.

In quella casa in cui aveva abitato per decenni, aveva trascorso gli anni della vedovanza dedicandosi al giardinaggio, al circolo della lettura e ai pomeriggi con Rita, appunto, a cui io avevo consegnato le chiavi dopo il funerale, per aprire le finestre di tanto in tanto.

Mamma non poteva concepire che una casa non prendesse luce e aria.

Quando la terza settimana di febbraio arrivai ero sfinita. Per il viaggio e per i continui fastidi che lo stress non smetteva di farmi provare. Attorno, tutto era rimasto come me lo ricordavo: le case arroccate su vicoletti stretti e il vento che vi si incanalava in quel periodo dell’anno, obbligandomi ad alzare il bavero del cappotto; lunghe scalinate e scorci mozzafiato che, nella bella stagione, erano meta di un turismo contemplativo e silenzioso. D’inverno, non c’era quasi nessuno. Il paesino si rianimava solo d’estate, quando anche noi, in un passato che stentavo ormai a ricordare, tornavamo in quel fazzoletto di mondo, per godere della frescura e della quiete.

Rita mi aspettava sulla soglia di casa, assieme a suo marito, già consumato dalla malattia, per accogliermi come si doveva. L’avevo avvisata al telefono. Stentava a riconoscermi, mi confessò. Avevo un aspetto provato, la carnagione spenta, gli occhi arrossati e i capelli sfibrati. Quel giorno si limitò a dire che sì, avevo proprio bisogno di riposo. Mi riconsegnò le chiavi e si premurò di rassicurarmi sul fatto che avrei potuto contare su di lei per ogni evenienza. La ringraziai, li salutai ed entrai.

Varcai quella soglia dopo anni.

Dentro, il tempo aveva smesso di scorrere, sebbene non ci fosse traccia alcuna di trascuratezza o, peggio, di abbandono. L’averle affidato la cura della casa aveva fatto sì che ne rimanesse intatta l’anima.

Ci misi qualche giorno a riconoscere come familiari quegli spazi, alcuni odori, tenaci e risoluti nel restare aggrappati a oggetti e suggestioni. Mi riappropriai di una lentezza misurata, mi dedicai a lunghe colazioni, accendevo il caminetto e mi accoccolavo sul divano per sfogliare i romanzi che mia madre aveva collezionato negli ultimi anni. Erano tutti libri di seconda e terza mano, recuperati nei mercatini, poco o nulla di recente. Spensi il cellulare per qualche giorno. Ne approfittai per passare in rassegna la mia vita a Milano, la frenesia di un lavoro in cui non mi riconoscevo più, il fallimento di un legame a cui mi ero ancorata, temendo di non riuscire a galleggiare senza. Mentre avvertivo allentarsi tensioni e nodi che mi avevano attanagliato per mesi, mi resi conto che di mio padre non c’era quasi più nulla che testimoniasse la sua presenza in quella casa, anche perché vi aveva vissuto pochissimo e non aveva fatto neanche in tempo a godersi la pensione, visto che era morto in servizio. Di qualche anno più grande di mia madre, era stato un ferroviere. Un capostazione per la precisione. I primi tempi ci eravamo spostati in giro per l’Italia, seguendo le sue assegnazioni nelle stazioni più sperdute, molte delle quali oggi non esistono più, fino a quando, trasferiteci in provincia di Cuneo, mia madre era crollata. Tra quei monti si era sentita soffocare come mai prima, giorno dopo giorno sembrava spegnarsi e sprofondare in un buco nero. Aveva rischiato di ammalarsi in un modo che lui non sarebbe stato in grado di affrontare. A quel punto, io e lei tornammo in Umbria. Lui ci raggiungeva quando i turni e le ferie glielo permettevano. La nostra era una famiglia a singhiozzo, un accomodarsi a scadenza l’uno nelle vite degli altri, senza pretese né recriminazioni. Lui non chiese mai un trasferimento per starci più vicino. Non mi domandai il perché. Era così e basta. Mia madre, ripresasi almeno apparentemente, trovò lavoro nella drogheria del paese, poi riconvertita a negozio di alimentari di una grande catena di distribuzione organizzata, fino a quando si ritirò per godersi la pensione, già vedova.

Nel frattempo, io ero cresciuta cercando di dimostrare di essere sempre all’altezza di tutte le aspettative che i miei avevano riversato su di me. Dovevo comportarmi bene e studiare per non vanificare i sacrifici di mio padre, in giro per l’Italia, e quelli di mia madre, sfiancata da orari sempre più lunghi al negozio.

Lo feci. Con diligenza e abnegazione. Poi scappai, appena mi fu possibile, per inseguire una carriera nel campo dei Beni Culturali e arrendermi, quasi subito, a impieghi molto precari e poco gratificanti nel mondo della promozione di eventi e della comunicazione e che, a quarantacinque anni, non mi permettevano di pianificare nulla.

Quelle due settimane trascorse praticamente tappata in casa furono sufficienti per farmi capire, in maniera inequivocabile, che la mia vita così com’era non andava più bene.

Solo che non avevo ancora ben chiaro cosa fare per cambiarla.

Appena una manciata di giorni più tardi, ci avrebbe pensato qualcosa di paralizzante per tutti a mettere in pausa ogni cosa, illudendoci di ridefinire priorità e di riscoprirci diversi.

E così mi ero ritrovata prigioniera in quella casa, con pochi abiti e molte incertezze, soprattutto lavorative, ma con il sollievo di non essere rimasta bloccata a Milano. Avevo impiegato qualche giorno a ridefinire la rotta e a ricostruire una routine scandita da regole, code, distanze, adempimenti. Ero uscita di rado, giusto per l’indispensabile, incrociando sguardi preoccupati, eppure velati di un’umanità di cui non ricordavo – o peggio – di cui ignoravo l’esistenza. Avevo letto e scritto, per lo più; osservato volti e storie di un’umanità confusa attraverso il monitor di un computer, nel silenzio surreale che in quel paesino era, se possibile, ancora più spettrale. Avevo fatto tanto di meno e tanto di più. Nel frattempo, l’inferno delle prime settimane era diventato un purgatorio quotidiano, in cui avevo appurato che potevo fare con poco, senza affogare nella frenesia di giornate ingolfate spesso dal nulla. I giorni erano diventati mesi, scanditi da incertezza, inconsistenza, prevedibilità e ognuno di essi si era concluso senza che venissi a capo di niente. Intanto, il mondo fuori era tornato a respirare, seppur in superficie, solo che io non me ne ero accorta, confinata tra quelle quattro mura, terrorizzata all’idea di dover tornare a Milano, alla mia vita di prima, che poi non sarebbe mai più stata tale.

Era il 10 di luglio quando decisi di accettare l’invito di Rita. Negli ultimi due cesti di frutta e verdura che mi aveva lasciato, aveva scritto che le avrebbe fatto piacere incontrarmi, magari per un tè a casa sua, in giardino. Alla giusta distanza, aveva precisato. Accettai con una certa titubanza.

Per me sarebbe stata la prima uscita al di fuori di quelle essenziali nonostante la riapertura, dal momento che avevo continuato a frequentare solo il negozio di alimentari e la farmacia, mentre per acquistare qualcosa di decente da indossare, più in linea con la stagione, mi ero arresa ai negozi online.

Andai da lei nel tardo pomeriggio. Giunta a piedi davanti all’arco del limoneto che incorniciava la sua casa, mi lasciai incantare dai frutti del bergamotto e del limone. Il marito di Rita, un calabrese taciturno e riflessivo, negli anni, aveva ricreato per quanto possibile le atmosfere della sua amata Costa dei Gelsomini, collezionando piante di agrumi di cui andava orgoglioso esattamente come del suo lavoro di bidello nella scuola materna del paese, rimasta aperta fino a quando il tasso di natalità si era azzerato, svuotando classi e consumando speranze.

Ebbi una sorta di déjà-vu davanti a quell’esplosione di giallo e verde brillanti. Barcollai qualche istante: a quella vista mi assalirono immagini di me bambina, quando mi godevo il sapore aspro del bergamotto, misto a quello dolce dello zucchero, versato generosamente sulle fette, qualcosa che, oggi, il mio stomaco aggrovigliato dalla gastrite non potrebbe sopportare. Lì per lì cercai di mettere a tacere quel senso di straniamento che mi avvolse tagliente e repentino.

Rita mi aspettava in veranda. Mi accolse con un sorriso ampio e sollevato.

«Speravo proprio che venissi» mi disse. «Entra pure, il cancello è aperto.»

Ci incontrammo a metà del vialetto di ingresso.

«Tesoro, sei dimagrita molto» mi fece notare, con sguardo preoccupato.

Anche lei era molto sciupata. Immaginai che dipendesse, soprattutto, da ciò che aveva passato, ma preferii non approfondire. Mi indicò il retro della casa a due piani in cui viveva da sempre, affinché la seguissi. Sotto un pergolato di vite canadese, c’erano un paio di poltrone in vimini e un tavolinetto apparecchiato per una merenda fuori orario. Attorno, il giardino era molto curato, ma fu soprattutto l’orto a sorprendermi.

Rita colse il mio sguardo meravigliato. «Prendermi cura di tutto questo mi aiuta a sentirlo ancora accanto a me. E a non impazzire» spiegò, riferendosi al marito senza nominarlo.

Le sorrisi mesta. Ci accomodammo, scambiammo qualche convenevole. Il frinire delle cicale era tutto sommato un sottofondo rassicurante.

«Ho preparato dell’Earl Grey ai fiori di lavanda e qualche pasticcino. Spero che ti piacciano» fece lei a un certo punto, disponendosi a versarmi l’infuso in un calice da Martini. Era la prima volta che lo degustavo in quella versione.

«Ah, la lavanda è quella provenzale e non quella inglese, eh!» precisò.

Non bevevo caffè, ma solo l’Earl Grey, il tè nero aromatizzato con l’olio estratto dalla scorza del frutto di bergamotto i cui fiori, la zagara dai cinque petali bianchi e penduli, sprigionavano una fragranza intensa e inebriante, di cui ero solita profumarmi il corpo sia in inverno che in estate.

Quando avvicinai il calice, avvertii qualcosa di straniante per la seconda volta nello stesso pomeriggio. Mi sentii risucchiata all’indietro. Era come se qualcosa, un’immagine, un vago ricordo, mi trascinasse in un passato remoto. Mi aggrappai ai braccioli della poltrona in vimini per qualche istante. Poi, recuperato il controllo, iniziai a sorseggiare lentamente quella bevanda dal sapore inedito ed equilibrato, e mi lasciai accarezzare dalla pacatezza con cui Rita mi raccontò dell’uragano che aveva travolto lei e il marito. E dalla risolutezza con cui gli aveva promesso, e si era ripromessa, di non lasciarsi sopraffare da tutto quel dolore.

«Ma dimmi di te, ora. Scusami, ma non mi sono ancora riabituata a conversare con qualcuno e credo di non averti dato modo di parlare» mi disse all’improvviso.

Mi mossi a disagio. Tra le due, ero sicuramente io quella più arrugginita. «Non preoccuparti» provai a rassicurarla, «è più complicato del previsto anche per me.»

«Quanto tornerai a Milano?» mi domandò approfittando di quell’apertura.

«Non lo so. Non so neanche se lo farò, a dire il vero. Mi spaventa anche solo l’idea di tornare da dove sono scappata.»

«Quindi resterai qui…»

«Per un po’, sì. Credo di sì.»

Rita si schiarì la voce. «Tua madre sperava che prima o poi saresti tornata per rimanere» concluse, versandosi dell’altro tè. «Mi diceva che le dispiaceva di non essere stata capace di regalarti la famiglia che avresti meritato. Era un cruccio che negli anni era diventato sempre più difficile da accettare» aggiunse, cercando un appiglio nei miei occhi ridotti a due fessure.

La guardai di traverso. «Non esistono famiglie perfette. E io, se non altro, ne ho avuta una né migliore né peggiore di altre, ma pur sempre presente, nonostante tutto» sentenziai con più enfasi di quanto avrei voluto.

«Sai» proseguì la donna svicolando, «abbiamo trascorso molto tempo assieme io e tua madre, soprattutto da quando tu te ne sei andata. Eravamo così diverse e distanti per certi aspetti, eppure siamo state capaci di costruire un’amicizia schietta, genuina, complice.»

«Sì, lo so.»

Rita si interruppe e si versò dell’altro tè. «Ed è per questo che d’estate, quando eri solo una bambina, trascorrevi molti giorni assieme a me e a mio marito. Forse tu non te lo ricordi neanche» aggiunse in un soffio, abbassando lo sguardo sulle mani nodose che stringevano il calice.

«Non capisco cosa vuoi dire» replicai sconcertata.

«Qualche giorno prima di morire, mi fece promettere di raccontarti tutta la verità» spiegò, gonfiando il petto e sospirando come se quella manciata di parole le costassero una fatica immane.

Sgranai gli occhi. Avvertii il battito accelerato del cuore. Il concerto delle cicale era diventato insopportabile.

Tornai a casa che era ormai buio. Era bastata una manciata di ore per mettere a soqquadro la mia vita. Il racconto accorato di una donna di cui serbavo ricordi d’infanzia confusi e sbiaditi mi aveva sbattuto in faccia l’inconsistenza della fragile impalcatura emotiva su cui era stata costruita la mia famiglia.

Riflettei a lungo durante quella notte afosa e senza luna. Una tazza di tè dopo l’altra, mi interrogai sul senso di certi legami, non recisi per mancanza di coraggio ma, forse, per esigenze di comodo. Mi chiesi chi dei due, tra mio padre e mia madre, fosse degno di comprensione e pena e chi, invece, meritasse solo biasimo, se non addirittura disprezzo. Non riuscii a darmi una risposta.

Mia madre, a un certo punto, aveva semplicemente smesso di amarlo. E mio padre si era semplicemente adeguato, conducendo forse – ma questo non avrei potuto più appurarlo – tante vite parallele, quante erano state le piccole stazioni di provincia in cui aveva lavorato, accomunate dall’odore di attese sempre uguali a se stesse.

Era accaduto quando, durante una delle estati in cui si tornava al paese, mia madre aveva incontrato il suo amore di gioventù, rientrato dopo una manciata di anni trascorsi all’estero per cercare fortuna. Di nuovo al paese, beffeggiato dai più per il fallimento di quella sua fuga, aveva stretto i denti e si era adattato a qualsiasi lavoro. Scontroso e solitario, aveva finito per abbassare la guardia di fronte a una donna, madre e moglie, a cui non chiese mai nulla di più di quanto potesse dargli, compresi scampoli di tempo sottratti a me, nei pomeriggi torridi in cui mi lasciava giocare nel piccolo agrumeto di Rita e suo marito.

Complici e testimoni di quell’amore sbagliato, che sarebbe naufragato all’alba di un inverno di dieci anni più tardi, sull’asfalto ghiacciato dove “lui” aveva perso il controllo del camioncino usato per consegnare frutta ai negozi del circondario, mi regalarono la spensieratezza di un’infanzia a cui avevano smussato asprezze e riempito vuoti.

Eccolo, quindi, l’origine dell’odore di un passato che avevo rimosso senza accorgermene, che sapeva di bergamotto e limone, inconsapevolmente ricercato nelle innumerevoli tazze di tè sorseggiate più volte al giorno e nella fragranza di un profumo indossato da anni come una seconda pelle. Una memoria dei sensi su un passato ovattato di cui, a quanto sembrava, conoscevo solo una versione parziale. Imprecai su quelle porte socchiuse che Rita, tenendo fede alla promessa fatta a mia madre, aveva spalancato, generando rancore e incredulità, frustrazione e impotenza.

Mi alzai esausta dal divano alle prime luci dell’alba.

Forse con l’intenzione di anestetizzare i pensieri per un po’, scorsi i volumi collezionati da mia madre sugli scaffali impolverati. Ne afferrai uno piuttosto malridotto, posto in seconda fila. Non aveva più neanche la copertina. Sulla carta ingiallita del frontespizio lessi: Anna Karenina, Romanzo, del conte Leone Nikolàevič Tolstoj. Incuriosita per quella che era una delle prime edizioni del romanzo, andai direttamente all’incipit. “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro. Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.” Vicino, un’annotazione a matita scritta da mia madre, datata appena un paio di giorni prima della sua morte. “Ogni famiglia ha un segreto, e il segreto è che non è come le altre famiglie”, Alan Bennett.

Rimasi in bilico tra empatia e rifiuto, parziale assoluzione e condanna senza appello. La mia mente vorticava nel limbo degli opposti.

Il fischio della teiera messa a bollire, quasi senza rendermene conto, mi riportò alla realtà. Rimisi a posto il libro e andai in cucina. Mi preparai un’altra tazza di Earl Grey. Fuori era ormai giorno. In sottofondo, il ronzio della tv accesa per abitudine.

«Qualsiasi altra cosa tu abbia bisogno di sapere, io sono qua» mi aveva detto Rita la sera prima, vedendomi sconvolta.

Non ero sicura che l’avrei fatto. Sapevo per certo, però, che d’ora in avanti nulla per me sarebbe più stato lo stesso.

Foto di copertina di Monika Grabkowska – License by Unsplash – Free use

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© Viviana Picchiarelli – Diritti letterari riservati

8 commenti

  1. Complimenti all’autrice per la profondità di questo racconto “nudo e crudo”, ma allo stesso tempo riflessivo, verso tematiche sociali – il lavoro e l’alienazione che ne deriva, il tempo, la lentezza – a me molto care. Un abbraccio e un grazie a Gabriele, per la condivisione di questo spazio virtuale che dona ricchezza reale.

  2. Giuliana

    Bello, mi è piaciuto molto, scritto benissimo. Il senso di nostalgia e quegli odori colorati che pare quasi di sentire e vedere, immergono il lettore in un racconto incompiuto, che però lo lascia ugualmente soddisfatto.

      1. Un bellissimo racconto. Introspezione e odori consolatori. Immedesimarsi nella protagonista risulta l’approccio più naturale, comprendere i suoi moti d’animo, seguire a ritroso la sua storia.
        Complimenti all’autrice e al padrone di casa, per questa bellissima iniziativa di Incontri.

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